Gyula è quasi una favola, immersa in un clima immaginifico, povero e puro. In un paese lontano, sospeso nel tempo e nello spazio, vive un ragazzo diverso, amorevolmente cresciuto e protetto da mamma Eliza; il vicinato è raccolto intorno a poche strade, un bar e una vecchia falegnameria. I personaggi di questa storia, divisi fra personalità pragmatiche, terrigne e caratteri eterei, poetici, conducono una vita semplice: Bogdan e Adi sono operai, Messi è capo cantiere, Yury fa il tranviere, Viku il barista, Nina l’ubriacona, il Maestro Jani è un violinista con l’artrite alle mani, sposato con Tania…
Complici una serie di prodigiose coincidenze, Gyula, personaggio di lacerante purezza e di tenera ingenuità, riuscirà a incidere la grevità della realtà che lo circonda, divenendo l’artefice di un piccolo, grande miracolo che convincerà tutti che è possibile librarsi in alto e credere che esista sempre un’altra possibilità.
Con questi elementi, Fulvio Pepe mette in scena le piccolissime avventure della vita quotidiana di una comunità: le speranze, i timori, le gioie, persino l’amore si raccolgono in una storia popolare, nel senso più alto del termine, in una favola minima e poetica che riesce a parlare agli spettatori, rivelando in pochi tratti un intero universo.
Protagonista assoluta di questo vivace racconto corale è la piccola storia d’amore del sottotitolo, quella fra la madre e il figlio disabile, ma anche quella fra l’autore del testo e la musica, elemento che attraversa la narrazione e permea di sé lo spettacolo.

C’è qualcosa nella musica che mi ricorda lamore. La sua capacità di aggirare la mia sfera cosciente le permette di far emergere delle parti di me profonde e sconosciute soprattutto, delle parti dellio talmente pure da essere spudorate. Ecco, credo che la spudoratezza sia la prima caratteristica dellamore, come la verità. Di entrambe le cose io ho estrema paura, eppure so che entrambe (non so come, non saprei spiegare in che modo) sono intimamente legate al testo messo in scena. Gyula richiama la struttura narrativa di una favola, una sorta di grammatica infantile che trova il suo culmine in un lieto fine nato quasi involontariamente. Nella scrittura sono stato guidato dalla sola volontà di scrivere belle parti, ruoli gustosi, croccanti da recitare per attori di cui conoscevo già le caratteristiche e con cui desideravo lavorare. Lo spazio del Teatro Due è stato lalveo naturale di un processo di creazione che mi ha portato, nella fase di messa in scena, a constatare come unopera dellingegno diventi naturalmente patrimonio di tutti, anzi meglio, patrimonio degli altri! E stato facile notare come in teatro un testo appartenga immensamente di più allattore che lo interpreta che allautore che lo ha scritto. Il mio compito da regista si così è ridotto a una semplice funzione di controllo di un possibile arco narrativo, tutto il resto del lavoro è stato una pura questione personale fra lattore e il suo ruolo. La scoperta di questa verità preistorica mi ha commosso e ha così materializzato il primo miracolo di Gyula: proiettarmi in una dimensione più matura del mio lavoro.

Fulvio Pepe