“Da Auschwitz nasce una luce paradossale – ha affermato l’autore Juan Mayorga in occasione del suo incontro con il pubblico avvenuto lo scorso anno a Teatro Due – che ridà un significato al passato e ci obbliga a ripensare tutto di nuovo, i diritti umani, la violenza, l’Europa, il senso della responsabilità, le atrocità che nascono dall’indifferenza e dalla complicità di tanti. ” Matematico, filosofo, traduttore e drammaturgo; classe 1965, Juan Mayorga è un autore madrileno eclettico e in grande ascesa nel panorama teatrale internazionale. L’autore di Himmelweg (La via del cielo), di nuovo in scena a Teatro Due dal 10 al 19 aprile con Roberto Abbati, Fulvio Pepe e Massimiliano Sbarsi e la regia di Gigi Dall’Aglio, è membro dell’Istituto di Filosofia del Consiglio Superiore di Ricerca Scientifica che lavora sul tema de “La filosofia dopo l’Olocausto”. Questo territorio di indagine gli fornisce un punto di osservazione privilegiato per fare di un tragico fenomeno epocale uno strumento di riflessione sulle responsabilità dell’uomo nel presente. “Himmelweg” è il momento teatrale di questa riflessione. Qui tocca diversi temi: il potere delle immagini, la percezione della realtà, la retorica e dimostra quanto forte ed efficace possa rivelarsi l’artificio teatrale, seppur tragicamente confuso con la vita.

Himmelweg è ispirato a una storia vera: durante la seconda guerra mondiale, nel giugno del ’44, i nazisti ingannarono gli ispettori internazionali della Croce Rossa inviati nella città ghetto di Terezín per verificare le condizioni dei deportati. Questo campo prendeva le sembianze di un villaggio modello in cui agli abitanti era permesso vivere serenamente sotto il protettorato del comando militare tedesco. In realtà i deportati e i loro sorveglianti, sotto la direzione di un colto ufficiale tedesco, per ingannare l’ispettore della Croce Rossa furono costretti ad allestire una sorta di enorme rappresentazione collettiva.

“In Himmelweg tre diversi personaggi raccontano tre diverse condizioni con cui l’esperienza umana può rispondere davanti alla tragedia -ha raccontato Gigi Dall’Aglio. Il microcosmo del campo di concentramento si rispecchia in quello del palcoscenico. C’è la voce del gerarca nazista, regista della messa in scena, che ricopre la posizione di chi guida il gioco, di chi si illude di avere il diritto di manipolare la vita degli altri come se fosse una proiezione della propria soggettività; c’è quella, all’inverso, dell’abitante del campo scelto come suo “traduttore”, intermediario tra il gerarca e gli altri internati/attori, che vive l’esperienza dell’illusione di poter controllare il suo destino attraverso i miseri strumenti che gli vengono concessi; infine c’è la posizione dell’ispettore della Croce Rossa, il pubblico osservatore, l’occhio del mondo che guardando non vede.
Tutto il testo si appoggia sulla metafora teatrale per spiegare i rapporti di forza tra gli uomini, ma quando la vita vera viene confusa con la sua metafora, come anche oggi spesso avviene attraverso la realtà illusoria dei media, assistiamo a quel tragico fenomeno che Pasolini, riferendosi proprio al mondo nazista, chiamava “il trionfo dell’irrealtà”.