DSC_2948 copiaNell’affrontare Fede, Amore, Speranza si assiste ad un fenomeno curioso: il testo è pieno di colpa, omertà, propensione al sotterfugio e tutti questi ingredienti sono equamente distribuiti. Non ci sono eroi, non ci sono vincitori o vinti, buoni o cattivi, vittime o carnefici. Ancora una volta Horváth, grazie al paradosso costituito da personaggi nei quali non possiamo identificarci, ma allo stesso tempo, nemmeno evitare di riconoscerci almeno in parte, dipinge una storia che costituisce un terribile distillato della società attuale e per quanto viva solo sul palcoscenico sembra troppo simile alla vita quotidiana. Elisabeth vuole vendere il suo cadavere ad un obitorio per avere i soldi per pagare una multa e continuare così a lavorare senza finire in galera. Nel tentativo di rimanere a galla si scontra con vari personaggi che più tentano di aiutarla più la portano verso la sua distruzione. La società che vediamo in scena è una grande macchina che procede circolarmente e provvede automaticamente al suo nutrimento. Come ogni macchina, però, essa produce un eccesso, contiene in sé la propria scoria. In questo senso Elisabeth è forse necessaria proprio in funzione della sua inadeguatezza; le è impossibile aderire al mondo in cui si trova intrappolata anche se vorrebbe fortemente farne parte. Esso è un universo costellato di figure chiuse e incancrenite che interagiscono con lei in modo accidentale. Alfons Klostermeyer, giovane poliziotto nel quale Elisabeth ripone le sue speranze e che la abbandonerà al primo segnale di pericolo per la sua carriera; il Vice preparatore che le presta dei soldi nell’illusione di un tornaconto personale, svelatosi inesistente, e che la metterà nei guai; Irene Prantl, imprenditrice di intimo che non esita a lasciarla nelle mani di una giustizia cieca e vischiosa. Una storia piccola per personaggi miseri. È questo lo scenario che ci presenta la piccola danza macabra in cinque quadri di Ödön von Horváth, opera con la quale si chiude idealmente il trittico diretto da Walter Le Moli che Fondazione Teatro Due ha dedicato al grande autore austriaco. Una morte annunciata fin dalle prime battute, accompagnata dalla celebre marcia funebre di Chopin che culla i personaggi lungo tutta la vicenda per lasciarli infine alla loro sorte. I dialoghi di questo testo viaggiano su binari paralleli, e si intersecano più per accidente che per necessità di comunicazione. Tuttavia il senso di leggerezza e di semplicità reso è quasi sconcertante, tanto da far pensare ad un’opera minore, paradossalmente facile; ma ancora una volta dietro all’apparenza, in questo caso la denuncia della rigidità della macchina burocratica, si nasconde un ben più profondo livello di significati: non è rimasto più nulla, non c’è più possibilità di comunicare o di relazionarsi. L’unica cosa che rimane è l’indifferenza, unica e vera protagonista di questa storia. Gli ingranaggi del sistema cui Elisabeth vorrebbe entrare a far parte non sono altro che un lucido e consapevole ritratto della società dell’epoca. Una società corrotta, fatta di cadaveri e manichini, di autopsie e vendite all’ingrosso. Una società totalmente impregnata di corruzione e di colpa, che rinnega i suoi stessi prodotti. In questo ingranaggio Elisabeth è la parte sempre in difetto, sempre in rincorsa, che in quanto outsider esiste ed è fondamentale perché ogni sistema ha necessariamente bisogno delle sue vittime e delle sue eccezioni. Il suo è un problema di ritmo: nel complesso universo di cavilli legali e articoli minori, di espedienti e corruzione, Elisabeth è sempre un po’ in ritardo, sempre imprecisa e fuori tempo. Il paradosso della protagonista le è posto davanti continuamente, persino nell’ultimo, ironico quadro in cui viene salvata “suo malgrado” dal suicidio e poi lasciata morire di inedia dai suoi stessi salvatori. Elisabeth è in qualche modo la manifestazione del contrario; è il prodotto di una società e rifiuto della società stessa, è lo scarto necessario di un sistema che si autoalimenta. E’ la parte di vittime che serve per garantire l’equilibrio tra i carnefici. “Ho cercato di essere il più possibile spietato contro la stupidità e la menzogna, giacché una simile spietatezza potrebbe essere il più nobile compito di un letterato che a volte si figura di scrivere solo allo scopo di permettere alla gente di conoscersi” scriveva Horvath nell’introduzione a questo testo. Sparita ogni traccia di Storia con la S maiuscola – e spariti i grandi personaggi, è proprio nella quasi assenza di comunicazione e nella semplicità e povertà di linguaggio che si muovono i caratteri di Fede, Amore, Speranza. Una vicenda minore per caratteri minori si è detto. Ma non è rimasto nient’altro, a parte loro, o chissà noi stessi, da guardare.

Francesco Bianchi, Francesco Lanfranchi
Assistenti alla regia nel progetto “Gioventù senza Dio”, Studenti dell’Università IUAV di Venezia, Dipartimento PPAC Laurea Magistrale in Scienze e Tecniche del Teatro.