La rivoluzione non si fa da sola. I grandi cambiamenti, le rivoluzioni sono sempre l’effetto di forze collettive favorite dal vento della Storia, ma come vivere quando questo vento tace? Come vivere quando la politica è senza speranza, quando la politica è dimentica dell’avvenire? Come vivere quando le idee non hanno più alcun valore, quando il corpo sociale è lacerato, impaurito, ridotto al silenzio? Come vivere una vita degna quando la politica non è altro che imbroglio politico? Quando la rivoluzione è impossibile, rimane il teatro. Qui le utopie favoriscono giorni propizi, le forze innovatrici inventano ancora un domani, qui i propositi di pace e di equità non sono pronunciati invano. Quando Amleto vede l’impossibilità della rivoluzione, convoca il teatro per compiere una rivoluzione teatrale che racconti come tutto sia ancora possibile, per rianimare il desiderio dei giorni intossicati dal divenire. È a teatro che noi preserviamo le forze vive del cambiamento a misura d’uomo. Di fronte alla disperazione del politico, il teatro inventa una speranza politica che non è solo simbolica ma esemplare, emblematica, incarnata, necessaria. La politica è troppo bella perché la si lasci ai politici quando questi hanno a cuore soltanto i loro privilegi di classe. E il primo segno di dismissione politica dei politici è sempre lo smantellamento culturale. Sì, la cultura non è quantificabile e la sua necessità oltrepassa così tanto la legittimità economica da sfuggire agli uomini senza speranza.

Questa disperazione rispetto alla politica non ci impedisce comunque di credere ancora nel futuro. Credere nel futuro quando le forze storiche sono contrarie è forse la migliore definizione di cultura, poiché la politica non è la fredda gestione della realtà, ma la messa in pratica dell’amore del presente e dell’altro.

Noi abbiamo il dovere di resistere e il dovere di insistere. Abbiamo questo dovere verso le generazioni che verranno poiché culture millenarie potrebbero essere annientate nell’arco di una sola generazione. Insistiamo, il futuro della politica o sarà culturale, o non sarà. L’educazione è la cultura che comincia e la cultura è l’educazione che continua, insistiamo, il legame generazionale passa attraverso la cultura ed è uno dei fondamenti della Città. E non abbiamo bisogno di nessun dio se crediamo che la trascendenza sia nella collettività e se impariamo ad affermarla dentro le nostre vite. Quando Jean Vilar ha immaginato un patto tra gli artisti e la Repubblica, ha saputo dare asilo a volontà utopiche, ad aggregazioni di diversità e all’amore dei possibili.

Insistiamo sull’esigenza intellettuale, credendo all’intelligenza del pubblico, insistiamo sull’impegno dell’artista, sulla coscienza del poeta. Desideriamo fortemente che il triste spettacolo del mondo e della nostra impotenza trovi sulla scena una contraddizione fatta di meraviglia e di coraggio.

La sala di un teatro è già in sé una rappresentazione della Città, non si deve far altro che guardare la splendida agorà della Cour du Palais des Papes per vedere un’immagine più bella della nostra società e ritrovarvi un’architettura di speranza. Ad Avignone infrangiamo il fatalismo. Il pubblico, il suo calore, la sua sete spirituale, oppongono a qualunque determinismo un desiderio di sconosciuto e di imprescritto. Sì, non sappiamo quello che succederà… la cultura è diversa dall’erudizione che crede di sapere, dall’analisi materiale che pretende di sapere, e dalla falsa autorità del pragmatismo che afferma di sapere. Essere politico è credere nell’uomo. Gli artisti ci danno delle buone ragioni per credere nell’uomo, diventano la voce del popolo che rifiuta un mondo privato di senso e ci ricordano che la meraviglia e la speranza sono una scelta. Sì, insistiamo, se i potenti non credono più nella cultura, è perché non credono più alla sovranità del popolo. Ecco quello che Jean Vilar è venuto a dirci ad Avignone, e che instancabilmente diremo ancora attraverso questa 70esima edizione.

 

Olivier Py