Parla della contemporaneità, del potere e del denaro questa attualissima commedia di fine ‘600, che a sua volta s’ispira ad un’antenata latina (l’Aulularia di Plauto) e che il Teatro delle Albe porta in scena nella traduzione di Cesare Garboli senza alcuna modifica all’originale. E lo fa in modo grottesco e noir, in un allestimento che Marco Martinelli e Ermanna Montanari hanno pensato spoglio, in costruzione e de-costruzione, graffiante e seducente.
Un’ambizione feroce, senza luogo e senza tempo, sospinge gli uomini e le donne di questo dramma, e della società tutta si direbbe, all’estenuante ricerca di ricchezza. Di questa atavica brama di possesso, l’Arpagone protagonista – né uomo né donna, nella straordinaria interpretazione di Ermanna Montanari – si fa capostipite e col suo microfono, che amplifica passioni e pensieri, diviene portatore di tutti i valori, o meglio, i dis-valori della sua e della nostra comunità.

 

In questa commedia sul denaro, il denaro non c'è. Se ne parla sempre, ma non c'è. Meglio: non si vede. E' invisibile, come un dio. E' il dio di quella miserabile religione di cui Arpagone è l'officiante. Visibili sono gli esseri umani, anche troppo. Cercano di nascondersi gli uni agli occhi degli altri, ma non ce la fanno. Il privato e il pubblico, il segreto e lo spiattellato, sono inesorabilmente confusi. Non è possibile nessun genere d’intimità.
Se tutti spiano tutti, tutti sognano tutti. In questa commedia tutta cose, concretezza, cifre, calcoli, c'è un fondo misterioso. Che forse è questo essere sdoppiati (tranne Arpagone), fra ciò che si dice di essere e ciò che si è. Il mistero sta forse in quel che sogniamo di noi, in come sogniamo gli altri.

Marco Martinelli