Laboratorio perverso e spietato di parola, Nema problema è un urlo contro la guerra a cui l’autrice Laura Forti dà vita in questo testo duro e spietato sul conflitto tra serbi e croati del 1992. Una requisitoria cruda e violenta sulla guerra in Jugoslavia, un monologo magmatico e bellico, dal ritmo narrativo incalzante, che penetra la coscienza e inchioda all’ascolto.

Interpretato da Giampiero Judica, un concentrato di bravura, pathos, sudore, fatica, Nema problema s’ispira ad una storia vera in cui il protagonista ricorda, anni dopo, quella fase della sua vita, a soli 23 anni, in cui era “un bauscia” che sognava di essere come il grande fotografo Robert Capa ed invece, per un caso della vita, si trovò a combattere per la Croazia…

Un fiume di parole in compenetrazione totale con il corpo vibrante di spasmi, lo straniamento folle di chi ha l’orrore negli occhi e nelle vene, Nema problema è una verità implacabile sulla stupidità umana che genera le guerre. Il racconto è scandito e interrotto, a volte frenato, dal denso sospiro di un sax, che ispira i ricordi, intrisi di sangue e ingiustizia, di sogni e solitudine, di atroci disillusioni e ferocità umana.

A 500 kilometri da noi c’è stata una guerra. Ce l’avevamo in casa. Eppure sembra che quella guerra non ci appartenesse, l’abbiamo vista come qualcosa di completamente distinto da noi. Non è stato così per tutti. Anche degli italiani sono rimasti intrappolati in quella guerra. Senza sapere nemmeno perché, da una parte piuttosto che dall’altra. Per motivi banali, hanno combattuto senza aver mai provato quei risentimenti alimentati da odi atavici che da secoli si rinnovano di generazione in generazione. È l’imbecillità della guerra, che si trascina dietro tutto quello che trova. E per colmo di idiozia animale, riesce anche a essere un condensato di vita pulsante fatta di paura e adrenalina che una volta vissuta si rimpiange anche se non si vorrebbe mai aver vissuto. Una contraddizione che alimenta un fascino potentissimo, una tensione continua verso la morte per esorcizzarla. Nelle età dell’uomo quello stato corrisponde all’incoscienza dell’adolescenza. È successo lì non perché loro sono diversi, né perché cinquecento chilometri ne fanno un altro mondo. Erano una sola nazione e si è spezzato il collante che la teneva insieme. Quanto tempo deve passare per tornare al vivere civile? Questa storia è una storia vera, purtroppo.                                                          

Pietro Bontempo

Quello che mi ha colpito in questa storia è stato il “dopo”, quello che è successo quando il mio amico è tornato a Milano: il suo chiudersi in casa a guardare il muro, il suo vedere immaginari cecchini sui tetti delle case, il rifiuto di prendere i farmaci per il bisogno rabbioso di ricordare, il volere che gli altri gli facessero una domanda, che rompessero il muro di indifferenza e il bisogno di scappare al parco per rinchiudersi in una campana di silenzio. Mi chiedevo, come si fa a riprendere vita e giovinezza, dopo che hai visto la morte e la crudeltà, dopo che hai assistito a quello che può fare di orribile un essere umano ad un altro essere? Non so se una ferita come la sua guarirà mai, non so se sia possibile tornare alla propria vita e salvarsi, una volta che la corazza è forata e il dolore ci ha morso. Che dobbiamo fare quando quello che percepivamo come “lontano” diventa improvvisamente “vicino”? Questo testo non è certo una risposta, è semplicemente la storia di uno come noi, che viveva a Milano e si è ritrovato in Croazia nel 92, che è sopravvissuto al male e che ha cercato di non impazzire suonando il sassofono.                                                                                           

Laura Forti