Gli anni ‘20. Jazz, guanti lunghi, sigarette. Anni in bianco e nero lontanissimi da qui. Eppure. Eppure in quegli anni, si può dire, nascevano forme di intrattenimento che oggi conosciamo più che bene: i reality show. Non si chiamavano così, ma le differenze sembrano essere davvero poche: ragazzi e ragazze si mettevano in mostra per guadagnare fama e denaro. Erano gli anni della recessione, forse la disperazione spodestava la dignità, magari unita alla vanità, al voler essere notati a tutti i costi. Così, in quegli anni, nascevano le maratone di ballo.
Siamo negli Stati Uniti, dall’east coast alla west coast migliaia di coppie (o di singoli ballerini) si facevano incollare un numero sulla schiena e iniziavano a danzare, per giorni, settimane o addirittura mesi davanti a un pubblico copioso e pagante (assistere alle maratone di ballo costava circa 25 centesimi). I ballerini dovevano stare sulle loro gambe per più tempo possibile, incoraggiati dal premio in denaro che spettava al vincitore. Le regole erano precise (clicca qui) e le pause ridotte all’osso. Inoltre questi caroselli di disperati vedevano decine e decine di persone all’opera; la cantante jazz Anita O’Day ha iniziato la sua carriera proprio partecipando a questi show e ha testimoniato dicendo “sembra incredibile ma per più di quindici mila persone – tra promotori, giudici, allenatori, infermiere, cuochi, guardiani, cassieri, bigliettai, agenti pubblicitari, musicisti, presentatori, partecipanti e anche avvocati – la fonte di guadagno principale per anni sono state le maratone di ballo”.
Fu una donna a dare inizio a queste gare: Alma Cummings nel 1923 ballò per 27 ore consecutive. Un record che spronò sempre più ballerini a voler danzare fino ai propri limiti più estremi, sia fisici, che psicologici. In realtà le maratone non erano vere gare di ballo, non era la tecnica a fare da metro di giudizio, ma la durata, la capacità di resistere, tanto che all’inizio degli anni ‘30 gli organizzatori cominciarono ad inventare sfide crudeli e complicate, come gare e corse che puntavano all’esasperazione dei concorrenti, motivandone la cattiveria e la brama di vittoria. Le maratone diventavano sempre più simili alle barbarie di epoca romana, quando gli schiavi o i perdenti venivano torturati pubblicamente e, anzi, divenivano motivo di risa e intrattenimento per chi stava seduto a osservare dagli spalti. Le maratone si rivelarono come delle torture che volevano i partecipanti sempre in movimento, anche mentre consumavano pasti e spuntini, mentre gli uomini si facevano la barba o mentre si lucidavano le scarpe. Sempre. Ballerini, svuotati di pudore ed energia, si dimenavano, tenendosi sù a vicenda: se le ginocchia toccano terra, è tutto finito. E la maggior parte dei concorrenti finiva proprio così, con in tasca solo delusione e i pochi spiccioli elemosinati dal pubblico.
Qui un video originale delle maratone di ballo degli anni '30.