Delfi è una città sacra della Focide considerata in antichità l’ombelico del mondo, oracolo ufficiale della grecità, sede della Pizia, sacerdotessa di Apollo, che qui vaticinava.

Nell’incipit delle Eumenidi eschilee, la Pizia racconta l’origine del mito di Delfi:

“Prima tra gli dei,
con questa invocazione onoro Gea, iniziatrice di profezie.
Poi Temi, che per seconda, come tramandano,
sedette su questo seggio profetico, su cui si era seduta la madre.
Per terza vi salì, con il consenso di Temi
e senza che alcuno esercitasse violenza su di lei,
un‘altra Titanide Febe, figlia di Terra, e Costei lo trasmise
come dono natale a Febo, che da Lei prese nome. Ed Egli,
lasciato il lago e la rupe di Delo, approdò alle coste di Pallade, passaggio di navi,
giunse a questa terra e alla dimora del Parnaso.
Lo scortarono, facendogli strada con grande venerazione, i figli di Efesto
Civilizzando una terra altrimenti selvaggia. E quando giunse
gli rese onore supremo il popolo di Delfo,
sovrano di questa contrada, che ne regge il timone. E Zeus,
ispirandogli nel petto l’arte profetica lo insediò su questo trono,
come quarto vaticinante.”

Un uomo e un ragazzo: una vecchia guida archeologica di Delfi che parla ad un giovanissimo collega.
(O forse un sacerdote dell’oracolo che enuncia il vaticinio della Pizia?)
E’ stanco. La stanchezza di chi ha vissuto a contatto con l’eroico passato dell’uomo.
(O le vestigia sono la testimonianza della caducità dell’esistenza?)
Nei versi di Ritsos, attraverso la vecchia guida si materializza così la dimensione del tempo (più forte della morte) che ingoia ogni lacerto umano e consuma ogni traccia di memoria: dalle colonne del tempio antico alle guerre umane.
(O il linguaggio immaginifico è il responso del dio e nulla serve e comunque non tutto questo e forse la felicità è il rifiuto della gloria e la privazione di tutto?)