Mi ricordo quando ero piccola. Quando ero piccola mi affascinava tutto tantissimo. Anche adesso in realtà, ma quando ero piccola, di più.

Inoltre, quando ero piccola, tutto era – ovviamente – molto più grande di me. Ogni cosa assumeva una dimensione grandiosa, che, inevitabilmente, aggiungeva ulteriore fascino.

In tutto questo mio essere di ridotte dimensioni e con una propensione particolare al fascino delle cose,  è capitato che le maestre mi portassero a teatro. E io neanche sapevo cosa fosse, praticamente, il teatro.

Ci hanno infilato gli husky colorati e sistemati in fila per due manina-manina. Il teatro aveva un ingresso altissimo. Talmente alto che il collo doveva piegarsi proprio tanto per guardarlo tutto. Il teatro aveva poi molte poltrone e c’era buio, un buio pesto. Quasi mi spaventava, tutto quel buio. Spaventava un po’ tutti noi io credo, perché ce ne stavamo zitti, con gli occhi attenti e le manine sempre più strette, le une nelle altre. Ma quel buio aveva un odore particolare che per me è rimasto sempre l’odore del teatro, che solo lì c’è. Un odore rassicurante che mi ha salvato dalla paura del buio di quel luogo strano e che mi ha fatto innamorare. Un odore tipo quello dello spago, che sembra un po’ polvere ma anche borotalco. Forse fumo, o più che fumo, nebbia. Un odore autunnale comunque, che quando lo sentivo chiudevo gli occhi e mi sentivo salva da tutto quello che stava succedendo fuori, perché io ero lì, cullata da voci che raccontavano storie. Voci di persone grandi che erano impregnate di quell’odore di autunno. Odore di teatro. E da lì in poi, sempre, crescendo, dovendo piegare il collo sempre meno per guardare tutta la porta per intero, sempre, entrare in teatro significa incollarsi addosso quell’odore e quell’umore, scacciare via le piccole sofferenze della normalità per infilarsi in mezzo a voci che raccontano storie.

Ognuno poi ha i propri ricordi. C’è chi riconosce prima di tutto il teatro per i suoi artisti, i suoi autori, i suoi attori. Chi per il suo lottare, la sua politica, la sua cultura. Chi perché sente dentro il bisogno di essere sul palco e agire, in qualche modo, comunicare. Essere guardato. Chi ha bisogno di guardare. Chi ha bisogno del teatro per parlare. Di sé come del mondo. Oppure di mondi altri. E allora si torna lì, ancora una volta. A quell’astensione infantile dal normale ordine delle cose, a quel sospiro di sollievo unico che appartiene solo all’astrazione. Un’astrazione che salva e che insegna. Insegna ad affrontare la realtà e a prenderla anche in giro certe volte, perché se lo merita. Insegna che l’intrattenimento non è altro che distrazione ma che, adoperata nella giusta maniera, una goccia di distrazione serve per addolcire il mondo. 

 

F.