Martedì 19 ottobre Cristina Grazioli e Pasquale Mari saranno ospiti di Teatro Due dove presenteranno il loro libro Dire luce – una riflessione a due voci sulla luce in scena, recentemente edito da Cue Press. Due punti di partenza diversi, quelli dei due autori: più teorico/storico quello di Cristina Grazioli, che attualmente insegna Storia ed Estetica della Luce in Scena e Teatri di Figure: Storie ed Estetiche all’Università di Padova e le cui ricerche si muovono alla scoperta di un dialogo aperto tra scena e arti visive; prettamente pratico quello di Pasquale Mari, light designer e direttore della fotografica tra i più importanti del panorama italiano – fresco vincitore per il Migliore disegno Luci (Satyricon, regia Andrea De Rosa) alla X edizione del premio Le Maschere del Teatro Italiano. Due voci che, nella distanza, incrociano le stesse coordinate di riferimento, condensandole in dodici parole-mondi (Invisibilità, Materia, Scrittura, Polvere, Buio, Colore, Movimento, Voce, Trasparenza, Atmosfera, Botanica, Aria).

 

Riportiamo di seguito il pezzo Magia della luce che tutto crea e tutto distrugge di Franco Marcoaldi scritto per La Repubblica e uscito il 6 giugno scorso:

A chi fa della facile ironia sui presunti echi new age di quanti individuano nella luce l’energia suprema e sacra che a tutto sovraintende e a cui è giusto inchinarsi, sarà bene ricordare che in avvio della Bibbia leggiamo «fiat lux» e nel Corano «luce su luce». Senza contare poi che sinonimo di nascita è «dare alla luce», mentre per contro, morendo, entriamo nel buio eterno.

D’altronde la stessa, indiscussa sovranità di tale elemento, assieme magico e inafferrabile, la ritroviamo in pittura, oltre che nella fotografia e nel cinema. Bene lo dimostra un volume a quattro mani, di grande interesse, pubblicato dall’editore Cue Press: Dire luce. Ad animare il serratissimo dialogo sono Cristina Grazioli e Pasquale Mari. La prima è una studiosa da sempre attenta ai rapporti tra la scena e le arti visive. Il secondo un artista, (anche se preferisce definirsi ‘operaio della luce’), che in qualità di direttore della fotografia ha lavorato con i più importanti registi di cinema. Mentre in ambito teatrale, dove la sua attività è non meno intensa, sceglie per sè il termine nostrano di ‘direttore luci’ (e anche per per averci risparmiato il lighting designer, oggi tanto in voga, dobbiamo essergli grati). A un certo punto del libro, Mari annota: «In termini psicofisici, chi si occupa della luce patisce una mancanza. Quella del tatto. Si soffre di non poter toccare la luce proprio mentre ci è richiesto di modellarla, di manipolarla, di farne strumento; scappa letteralmente da tutte le parti e si spende la vita a rincorrerla, a dirigerla, a provare a incanalarla (ma non è acqua), a modellarla (ma non è creta)». Non si poteva dire meglio. Chi scrive con la luce deve affrontare con coraggio il possibile scacco a cui va incontro. E per evitarlo deve industriarsi in mille modi: intraprendendo un costante corpo a corpo con lo spazio scenico da svelare. Per poi giocare in quello spazio sempre di sguincio: con l’infinita gamma di possibili colori, con la penombra, la materia, la «polvere luminosa del palcoscenico», perfino con il buio (che non è mai totale).

Del resto, come scrive San Giovanni della Croce, «la luce non è cosa che si vede per se stessa, ma è il mezzo tramite cui si vedono le altre cose sulle quali essa si rifrange». E Mari chiosa: «Se non incontra qualcosa come un corpo o un oggetto (o un’anima, dice de la Cruz), la luce (anche quella di Dio) è buio». Bene lo sa chi da una vita prova a metterla in scena.