Potrei credere solo a un dio che sapesse danzare.

F. Nietzsche

Quando vado a fare l'aperitivo, rito collettivo che mi vede fervido adepto, ordino quasi sempre un Negroni. Mi è capitato talvolta che alcuni barman, nel prepararmelo, abbiano optato per la versione old style: oltre alla fetta d'arancia, ne hanno aggiunta anche una di limone; il problema è che i più distratti (o indaffarati, se li vogliamo scusare) non si sono limitati alla scorza, ma ci han calato giù anche la polpa! Questo aggiunge un sapore in più che, però, cozza con l'equilibrio del cocktail e ne altera il sapore. Si badi bene, l'aggiunta di una scorza di limone si rifà ad una tradizione precisa, quella del Negroni classico; la scorza, però… non la polpa!

 

 

 

 

 

 

 

 

L'incontro aperto al pubblico con Elisabetta Pozzi, protagonista di Elektra di Hugo von Hofmannsthal in cartellone al Teatro Due, il regista dello spettacolo, Carmelo Rifici, e il prof. Luigi Allegri, teatrologo dell'Università di Parma, è stato un'ottima occasione per fugare i dubbi e soddisfare i propri interessi riguardo allo spettacolo. Sia il regista che la protagonista hanno ribattuto più volte sul parallelismo fra il personaggio di Elektra e il protagonista dell'Amleto shakespeariano, parallelismo che, come ha sottolineato il prof. Allegri, è stato istituito da Hofmannsthal stesso. In effetti, tutto lo spettacolo è imbevuto di questa chiave di lettura del regista, che, tra l'altro, ha curato anche la traduzione (benvengano sempre le nuove traduzioni per nuove messinscene dei classici!). Questo gli ha consentito di ingrossare con altri affluenti il fiume di parole che erompe sulla scena (che, tra l'altro, costrinse Richard Strauss a operare svariati tagli, nel momento in cui mise mano al libretto per comporre la "sua" Elektra); mi riferisco ad alcuni passi tratti dall'opera di William Shakespeare che sentiamo in bocca ai personaggi di Hofmannsthal.

 

 

 

 

 

 

 

 

Non mi ha stupito tanto vedere Elektra dressed in black, con evidente richiamo al principe di Danimarca. Non mi ha stupito neanche vederla con abiti maschili; secondo me, ci stava. Mi ha stupito molto invece il modo in cui entra in scena: nel testo viene caratterizzata con termini che rimandano alla ferinità ("bestia", "gatta selvatica") e tutto il testo è percorso da fitti rimandi al mondo della danza (sono gli anni della Körperkultur). Vederla entrare pensosa mentre legge un libro e insistere sulla presunta scissione tra pensiero e azione, rinunciando alla dimensione corporea della danza ("taci e danza" è la straordinaria chiusa della figlia di Agamennone) sono aspetti che mi han ricordato un Amleto più romantico che shakespeariano.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Altra idea registica "forte" è stata quella di ambientare lo spettacolo in una sorta di manicomio; una scelta precisa, che delinea una chiara idea di regia. Non m'interessa discutere se son state scelte giuste o sbagliate. Quello che mi chiedo e di cui mi piacerebbe discutere con chi ha la bontà e l'interesse di leggere queste mie riflessioni è: quanto un regista può piegare un testo alla sua visione, alle sue idee? Quanto deve rispettare o violentare un testo? E' più importante il suo mondo o quello dell'autore? Sembra un argomentone, lo so, ma penso sia di fondamentale interesse conoscere l'opinione di chi bazzica il teatro, a qualsiasi titolo, sia esso spettatore, sia esso attore o regista o scenografo o drammaturgo. Perchè il teatro si fa insieme, non da soli; ce lo ricorda anche Elektra, quando, cercando di convincerla a darle una mano nell'uccisione della madre e di Egisto, dice alla titubante Crisotemide: "Se il letto non fosse uno per loro, agirei sola. Ma così, devi esserci." E' come un rito; o (come preferisco io…. stavolta mi sbilancio!) come un gioco.

G.