Di seguito riportiamo un articolo di Ginevra Le Moli pubblicato su www.lavoroculturale.org intitolato Gioventù senza Dio e dedicato alla trilogia omonima prodotta da Fondazione Teatro Due e in scena da gennaio 2014 a Teatro Due.

 

Il progetto dal nome profetico “Gioventù senza Dio” accosta tre testi del drammaturgo austriaco Ödön von Horváth, ultimo rappresentante del teatro viennese. Scritti in piena egemonia nazionalsocialista, proponiamo un’analisi di “Storie del Bosco Viennese”, “Fede, Speranza e Carità” e “Gioventù senza Dio” per dare uno spunto di riflessione su alcuni tratti che sembrano rappresentativi anche della nostra contemporaneità.

I giovani sono veramente il domani? Questa domanda, la cui risposta dovrebbe essere immediata, è resa dal drammaturgo e romanziere austriaco Ödön von Horváth (1901-1938) un quesito su cui realmente interrogarsi. E se lo sono, in che termini dobbiamo rifletterci? Gli anziani sono il futuro in quanto custodi della saggezza – anche se ormai sembrano più eternigiovani che altro – ma le generazioni fresche e rampanti come lo diventano quel futuro? Con le loro forze, certo, ma soprattutto, sembra suggerirci l’autore, se non li ancoriamo troppo alla concretezza del tessuto sociale e diamo loro gli strumenti per non isolarsi.

Esponente di rilievo della cultura di lingua tedesca degli anni Trenta, Horváth si fece notare sin da subito grazie alle sue disincantate storie piccolo-borghesi. Non solo i tratti biografici sono impregnati di modernità – nato a Fiume, cresciuto a Belgrado, Budapest, Bratislava, Vienna e Monaco e dal passaporto ungherese – ma soprattutto lo sono le riflessioni che irradiano i suoi diversi testi, che scrisse muovendosi continuamente di città in città, fino a quando, nel 1938, andò prima in Svizzera, poi a Parigi, dove morì tragicamente schiacciato dal tronco di un albero degli Champs Elysées colpito da un fulmine in un violento temporale. Strana morte, che sembra aver presagito in uno dei suoi ultimi romanzi in cui scriveva “Cresce un albero, un albero morto”.

La sua tempra di moralista e lontana dall’adesione ad un gruppo ideologico lo portò a permeare le sue pagine di un’indagine divertita e critica sull’ambiente circostante, con un’ironia a volte implicita a volte manifesta. Storie del bosco viennese, considerato il capolavoro di Horváth e tra i classici del teatro moderno, è una commedia popolare in tre parti, rappresentata al Deutsches Theater di Berlino il 2 Novembre 1931 e pubblicata lo stesso anno. Siamo in una Vienna dove padroneggia l’ideologia e dove la borghesia eleva a valori supremi bassezze e crudeltà, fisiche e mentali, germe naturale della cultura nazista. Nello sguardo di Horváth c’è una calma stranamente mite, uno sguardo spietato, dall’alto. Il piccolo-borghese è l’uomo opaco che resiste all’anima, che sta all’ultimo e al primo gradino della scala sociale e lotta per la conservazione dell’inganno.

Alfred Zentner è un giovane senza un soldo, che vive grazie alla tabaccaia Valerie, di cui investe ingenti somme nelle corse dei cavalli. Dopo una discussione, Alfred decide di lasciarla, quando intanto però ha già fatto innamorare Marianne – la figlia di Mago, proprietario del negozio di bambole accanto alla tabaccheria -, promessa sposa al conservatore Oskar. Un anno dopo, troviamo Oskar ancora innamorato di Marianne e Alfred insofferente del sentimentalismo della stessa e pronto ad abbandonare lei e il figlio Leopold. Prima di partire, Alfred sente di dover salutare Valerie, mentre Oskar compiange Marianne, che nel frattempo per guadagnarsi da vivere si esibisce seminuda in un locale degradato. A Marianne, dopo bieche vicissitudini, non resterà che accettare il devoto Oskar al quale Alfred l’ha ceduta, essendo rimasto senza un soldo, dopo essersi giocato tutto alle corse.

La convenienza prevale sul sentimento e sull’amore e la commedia diventa inevitabilmente dramma. Il Danubio fa da sfondo a figure egoiste, gravide di difetti e corruzione morale, ma ben smascherati (anche spiritualmente) dall’autore. Horváth mette sotto la lente una realtà ipocrita, sbavante davanti al denaro (tanto o poco che sia) e tradizionalmente perbenista, rappresentando caratteri bruegeliani, psicologie rotte accompagnate dai valzer di Strauss e musiche patriottiche, ma anche da silenzi, che ci fanno prendere un respiro davanti a quasi insopportabili mostruosità, perché, come scrisse l’autore stesso, “il motivo drammatico di tutti i miei lavori teatrali è la lotta tra coscienza e inconscio”.

Un tema comune a diversi lavori di Horváth è anche la pietà per la condizione della donna, il cui destino sembra essere quello di sottomettersi ad un uomo che si vendicherà per gli eventi angusti proposti dalla vita. Risale al 1936 Fede, Speranza e Carità, dove protagonista è la straziata Elisabeth, che per pagare vecchi debiti e ottenere una licenza come rappresentante viaggiatrice, ha bisogno di 150 marchi. Per trovare il denaro chiede di vendere il proprio corpo all’istituto di anatomia, che potrà utilizzarlo a scopi scientifici dopo la sua morte. Le tre virtù teologali vengono presentate in un ordine differente da quello esposto nella Prima lettera ai Corinzi (13,13). Un cambiamento che sembra il segno del sovvertimento delle virtù stesse, distrutte nella vicenda di Elisabeth, che di fede amore e speranza è priva. Fede e amore sembrano assenti, sostituite piuttosto dalla ricorrere dei termini Irrtum e Betrug, errore e inganno. E se fiducia e amore mancano, la speranza non può che evaporare (d’altronde che cosa si può sperare senza credervi?) e la vita, come dice il poliziotto, senza le tre virtù, non può aver senso. Elisabeth combatte contro forze che non conosce, ha vitalità, ma si rivela limitata e verrà condannata dalla sua stessa subcultura. Fallirà e morirà senza un briciolo di patetismo, circondata da descrizioni dal tono allegro e per nulla checoviane.

Elementi che ricordano sorprendentemente tanto la situazione che vive l’Italia, che come diceva Flaiano, è tragica, ma non seria, dove non si delineano affari di Stato e dove gli scontri non sono politici (nel senso più alto del termine) o etici, ma unicamente generazionali. Affari di famiglia, insomma, dove mancano però fiducia (quale atto politico genera sicurezza e tranquillità?), amore (o forse sì? Scriveva Pellico che l’amore è di sospetti fabbro) e, naturalmente, speranza. Di questa ce n’è molta, sì, ma nessuna per noi. E poi, in fondo, la sua esistenza non farebbe altro che indebolire le coscienze, come un male oscuro, ma intanto rimane senza dubbio la miglior consolazione alla miseria.

Sono gli occhi e lo spirito di Horváth quelli del professore protagonista di Gioventù senza Dio, testo che risale agli anni di completa ascesa del nazismo e di cui ne presenta un’embrionale metafora oltre che opposizione. Il trentaquattrenne maestro si fronteggia con giovani mutanti agli albori del Reich dalle menti pigre e allineate, nutriti di miseria dalla radio e recettori di ogni ovvietà. Lui li commisera con rabbia e disperazione impotente, rassegnandosi ad un dialogo scontato, all’assenza di vergogna e ad una dialettica impossibile, perfino con i genitori che “fanno ogni genere di domande, la maggior parte stupide, sui problemi dell’educazione”. Come si può reagire davanti a studenti che “odiano qualunque pensiero, se ne infischiano dell’uomo. Vogliono essere delle macchine, delle viti, delle ruote, delle bielle. O meglio ancora delle munizioni (…) Ma un momento… non è una grande virtù quest’accettazione del sacrificio supremo? Certo, se la causa è giusta, ma nel nostro caso, di che causa si tratta? Il Giusto è ciò che giova alla tribù, dice la radio.”. Sembra di ricordare la sequenza del film di Lubitsch To be or not to be, in cui l’attore in scena nelle vesti del Fuhrer azzarda un “Heil myself!”, emblema di un’adesione illogica alle consuetudini dittatoriali di cui ciascun giovane ariano deciso, bello e puro si è imbevuto. Perché sono le menti fresche dei ragazzi a dover essere plasmate per prime, in modo che non si formi uno spirito interpretativo di resistenza. L’ingiusto diventa quindi ciò che non da un utile al gruppo, quindi le regole sociali – poste a garanzia dei fini utilitaristici comuni- sono solo da rispettare e non da contestare. Tutto è permesso, anche il delitto.

“Da quando esiste la società umana non può, per ragioni di conservazione, rinunciare al delitto. Ma almeno i delitti si tacevano, si nascondevano, se ne provava vergogna. Oggi ne siamo fieri. È una peste di cui siamo tutti ammalati, amici e nemici. Le nostre anime sono piene di ulcere nere, e presto moriranno. Continueremo sì a vivere, ma saremo morti”. Per questo l’unico fine delle scuole diventa non l’educare e l’istruire all’innovazione ma il preparare “carne da cannone”, cupa profezia dell’esito degli atti del più bieco razzismo e ossequio delle parole d’ordine. Sarà infatti un delitto, la necessità di liberare un innocente e condannare un colpevole a far capire che forse etica e umanità (un Dio?) possono ancora vivere. Un romanzo che atterrisce per l’estrema modernità, trovandoci a tratti noi stessi riflessi nel maestro che si sente un pò entomologo e un pò straniero in patria, in tempi di politica così visibile ma estremamente piccola e tronfia.

Se il kitsch germina dalle abitudini di questa nuova piccola borghesia, che vive di picnic nei boschi e di Oktoberfest bavaresi, immersa dunque in un’atmosfera leggera, sudicia di sentimentalità e ipocrisia, Horváth può assurgere a uno degli intellettuali più illuminanti rispetto alla stupidità e volgarità umane, all’alba di un nazismo che razzierà la coscienza civile mondiale. E se anche oggi si vuole ridare a questi testi un costume scenico è segno che trovano appiglio tra il pubblico l’ironia e l’angoscia che rende tutti partecipi di una problematica e di una minaccia comune alla vita sociale.