
I TRENI DELLA FELICITÀ
di Laura Sicignano e Alessandra Vannucci
SPAZIO GRANDE
7 marzo, ore 20:30
con
Fiammetta Bellone, Federica Carruba Toscano, Egle Doria
musiche originali eseguite dal vivo da Edmondo Romano
scena Francesca Marsella
costumi Daniela De Blasio
luci, video e foto Luca Serra
ideazione e regia Laura Sicignano
produzione Fondazione Luzzati-Teatro Della Tosse, Associazione Madè
Un episodio storico dell’immediato Dopoguerra che vede protagoniste le donne nell’organizzazione di convogli che hanno trasferito “in Alta Italia”, principalmente in Emilia-Romagna, circa 70 mila bambini in condizioni di assoluta miseria da tutta la penisola. Il primo convoglio partì da Roma, Stazione Termini, il 19 gennaio del ’46. Non era più un treno di morte come i convogli dei deportati, ma ricostruiva la vita. A chiamarli treni della felicità fu il sindaco di Modena; a lanciare l’iniziativa furono le donne della neonata Udi, a partire dall’idea di solidarietà laica che animava Teresa Noce, battagliera dirigente comunista e partigiana da poco rientrata dal campo di sterminio di Ravensbrük.
I lunghissimi viaggi in treno rappresentavano per i ragazzini un percorso di formazione, anche segnato dal trauma dell’abbandono, che coincideva con la conoscenza del paesaggio italiano distrutto dalla Guerra. Pur non essendo ricche, le famiglie ospitanti accoglievano i bambini come figli, nell’idea che l’Italia si sarebbe risollevata e ricostruita grazie alla collaborazione di tutti. I piccoli vennero rivestiti, mandati a scuola, curati, in cambio di niente, grazie anche all’appoggio del Pci, dei Cln locali, delle sezioni Anpi, delle amministrazioni e della popolazione in genere.
Si intrecciarono non solo storie pratiche di soccorso, ma storie emotive di relazioni e di affetti che poi durarono nel tempo. Storie di chi sapeva costruire comunità.
La vicenda dei bambini che partirono con I treni della felicità è straordinaria al punto da sembrare oggi frutto di fantasia, ma è assolutamente vera e fa parte, per fortuna, della nostra storia.
La vicenda è anche un’occasione per riflettere sulla maternità – oggi e sempre – come condizione biologica, etica e politica. A partire dalla Seconda Guerra Mondiale le donne italiane acquisiscono consapevolezza dei propri diritti e trasformano la società. Le attrici restituiscono un affresco di personaggi di un’Italia reale ed ideale, vissuta e sognata attraverso l’azione politica e solidale delle donne. Le protagoniste si mettono in scena accanto ai personaggi con un atto di generosa autobiografia, in un processo di svelamento di sé, in relazione alla Storia, come donne del presente: si rivelano donne ferite, ma capaci di riscatto, di coraggiosa autodeterminazione, di fedeltà al proprio desiderio, forse proprio perché derivano dalle donne “che hanno fatto la guerra”. Le attrici con esse dialogano e si interrogano sulle proprie scelte e sulla propria posizione in un mondo diverso da quello di allora, che vorrebbero trasformare ancora con un’azione di responsabilità personale. Anche il teatro quindi concorre ad un cambiamento sociale volto a creare una comunità ideale: un luogo capace di fermarsi se una bambina piange, per mettersi in ascolto delle esigenze del più debole, sovvertendo le priorità, rivoluzionando un sistema di valori e di linguaggio, che nei secoli ha condotto alle macerie. Le donne in scena sono ricostruttrici sulle macerie. Entrano in scena per mettere a posto, secondo un ordine differente. Usano spazio e cose in modo differente. Cospargono di fiori la morte. Sono operose senza tregua: anche quando riflettono sul senso della Storia, stendono lenzuola; anche quando si riuniscono per riprogettare il mondo, maneggiano la lana. Hanno a disposizione molto poco – basta il necessario – per creare un mondo nuovo, ma lo fanno con intelligenza, fantasia e libertà. Hanno i corpi con cui scavare nella memoria, i denti per ridere della morte. Devono inventare un nuovo linguaggio e nuovi valori, per ricostruire dalle macerie e lo fanno a partire dal lavoro in scena. Devono lottare contro l’oblio per ricostruire.
Laura Sicignano
Un episodio storico dell’immediato Dopoguerra che vede protagoniste le donne nell’organizzazione di convogli che hanno trasferito “in Alta Italia”, principalmente in Emilia-Romagna, circa 70 mila bambini in condizioni di assoluta miseria da tutta la penisola. Il primo convoglio partì da Roma, Stazione Termini, il 19 gennaio del ’46. I lunghissimi viaggi in treno rappresentavano per i ragazzini un percorso di formazione, anche segnato dal trauma dell’abbandono, che coincideva con la conoscenza del paesaggio italiano distrutto dalla Guerra. Pur non essendo ricche, le famiglie ospitanti accoglievano i bambini come figli, nell’idea che l’Italia si sarebbe risollevata e ricostruita grazie alla collaborazione di tutti.
Si intrecciarono non solo storie pratiche di soccorso, ma storie emotive di relazioni e di affetti che poi durarono nel tempo. Storie di chi sapeva costruire comunità.
La vicenda dei bambini che partirono con I treni della felicità è straordinaria al punto da sembrare oggi frutto di fantasia, ma è assolutamente vera e fa parte, per fortuna, della nostra storia.
Le donne in scena sono ricostruttrici sulle macerie. Entrano in scena per mettere a posto, secondo un ordine differente. Usano spazio e cose in modo differente. Cospargono di fiori la morte. Sono operose senza tregua: anche quando riflettono sul senso della Storia, stendono lenzuola; anche quando si riuniscono per riprogettare il mondo, maneggiano la lana. Hanno a disposizione molto poco – basta il necessario – per creare un mondo nuovo, ma lo fanno con intelligenza, fantasia e libertà. Hanno i corpi con cui scavare nella memoria, i denti per ridere della morte. Devono inventare un nuovo linguaggio e nuovi valori, per ricostruire dalle macerie e lo fanno a partire dal lavoro in scena. Devono lottare contro l’oblio per ricostruire.
Laura Sicignano