Con questo spettacolo Elio De Capitani firma la terza regia di Tennessee Williams e riallaccia il filo di un lavoro iniziato diciannove anni fa con Un tram che si chiama desiderio (del Teatro Stabile di Genova con Mariangela Melato) e ripreso nel 2011 con Improvvisamente, l'estate scorsa. Opera inedita in Italia, La discesa di Orfeo è stata riletta dal Teatro dell'Elfo attraverso il teatro e il cinema di Fassbinder, attingendo al suo melò sociale, sospeso tra realismo e aperture oniriche: undici attori e una chitarrista coinvolti nel restituire ai suoi personaggi di Williams la tragica tenerezza e il furore esistenziale che li consuma.

La discesa di Orfeo fu rappresentato per la prima volta nel marzo del 1957 a New York, ma lo spettacolo ebbe poca fortuna. Sidney Lumet ne realizzò poco dopo una trasposizione per il grande schermo con il titolo The fugitive kind, in italiano Pelle di serpente, con protagonisti Anna Magnani e Marlon Brando. Il testo racconta l'incontro di tre fragili sognatori “che lasciano pelli dietro di sé, pelli pulite e denti e ossa bianche; sono segni che si trasmettono tra loro perché la razza di quelli sempre in fuga possa seguire le orme dei suoi simili”. Val è un vagabondo con chitarra e giacca di pelle di serpente; Lady è figlia di un emigrante italiano linciato dai razzisti, prigioniera di un matrimonio crudele con Jabe che la considera sua proprietà; Carol Cutrere è una giovane milionaria, fragile ma ribelle, che offre a Val un'ultima occasione di fuga. Val si innamora di Lady e sceglie di rompere con il suo passato di uomo di strada per vivere e lavorare accanto a lei. Ma, come un moderno Orfeo che tenta di salvare la sua Euridice, finisce fatto a pezzi dai fanatici del paese, che non tollerano lo scandalo della loro passione e il loro sogno di una vita felice.

Per questo allestimento Elio De Capitani e lo scenografo Carlo Sala hanno immaginato uno spazio industriale, una sala prove di un'indefinita periferia urbana: è qui che la compagnia arriva per provare il testo di Williams. Un luogo che non descrive gli ambienti del testo ma permette la libertà di citarli, anche con la lettura esplicita delle didascalie d'autore.  Gli interpreti, tutti sempre in scena, di volta in volta si fanno voci fuori campo e attivatori del meccanismo scenico, in un gioco di specchi e spaesamenti che lascia emergere le psicologie dense e sfaccettate dei personaggi.

 

Elio De Capitani prende coraggiosamente il toro per le corna, e invece di razionalizzarli sottolinea mélo e barocchismo, anche con la trovata, non nuova ma qui vincente, di far recitare le lunghe didascalie dove la fantasia dell'autore si scatena evocando ambienti impossibili da realizzare davvero. Lo spettacolo parte come una lettura a tavolino e continua come una prova senza costumi, e al pari di certe opere liriche eseguite in forma di concerto coinvolge proprio per l'assenza di correlativi visivi destinati all'inadeguatezza. – Masolino D'Amico, La stampa

 

Questa discesa agli inferi di un odierno Orfeo nel ventre buio della provincia americana, disarticolata nella sua struttura narrativa, prosciugata da ogni eccesso di realismo, assume quasi una sorta di nitidezza dimostrativa: quanto più se ne raggela l'andamento a fosche tinte, tanto più sembra acquistare una livida dimensione tragica. – Renato Palazzi, Il sole 24 ore