L’ISTITUZIONE CHE CURA
Esperienza dell’Equipe Carcere
all’interno degli Istituti Penitenziari di Parma

In ogni società si vive, ci si ammala, si diventa vecchi, si è soli. Ma una società produttivistica che si fonda sull’ideologia del benessere e dell’abbondanza per coprire la fame, non può programmare sufficienti misure preventive o assistenziali. Si salva ciò che può essere facilmente recuperato; il resto viene negato attraverso l’ideologia dell’incurabilità, dell’incomprensibilità, della natura umana, su cui si costruisce il castello del pregiudizio. Nella società dell’abbondanza-fame o c’è abbondanza o c’è fame. Ma la fame (con tutti i significati che questa parola comporta) non può manifestarsi brutalmente per ciò che è (ciò che consente all’abbondanza di essere e mantenersi tale) ma deve venire velata e schermata attraverso le ideologie che la definiranno di volta in volta come vizio, malattia, razza colpa”
Erving Goffman, “Asylums”, ed. Einaudi, 1968

Goffman, filosofo e sociologo americano, scrive questo libro nel 1961, viene pubblicato in Italia nel 1968 con la traduzione di Franca Ongaro Basaglia. In Italia cominciava a crescere in quegli anni una critica all’istituzione manicomiale, alla cosiddetta cura della patologia mentale che avveniva in luoghi costrittivi e violenti, che porterà alla chiusura degli ospedali psichiatrici attraverso la Legge 180. Goffman negli anni ’60 e ’70 descrive, analizza e studia quelle che allora definiva le “istituzioni totali”, una definizione che è poi entrata nel linguaggio comune. Nel testo “Asylums” l’autore si riferiva in particolare all’istituzione manicomiale, ma non solo. Ho riletto questa frase e ho pensato che le parole sottolineate in questa citazione potevano essere riferite oggi al contesto del carcere. Il manicomio non l’ho conosciuto, ma esistono colleghi e racconti che ce lo hanno fatto conoscere ugualmente. L’esercizio che ho fatto e che propongo al lettore è di leggere queste frasi pensando che non di manicomio si parla, bensì di carcere.
•    “In ogni società si vive, ci si ammala, si diventa vecchi, si è soli”. Questo succede anche nel microcosmo, nella microsocietà che è il carcere. Anche in carcere “si vive, ci si ammala, si diventa vecchi, si è soli”.
•    Per Goffman si salva ciò che può essere “recuperato”, una parola che nel linguaggio giuridico, legislativo, rieducativo è familiare a chi lavora in carcere; appunto ciò che non può essere recuperato non si salva, o rischia di venire respinto, allontanato, come scrive Goffman “sotto la definizione di incurabilità”, che declinato nel carcere significa “irrecuperabilità”.
•    Incurabilità, incomprensibilità che alimentano il “castello del pregiudizio”. Pensiamo a quanti pregiudizi racchiude in sé una persona finita in carcere, magari con problemi di tossicodipendenza, con un disagio psichiatrico, e infine (come è molto frequente incontrare) anche straniera, disoccupata, senza relazioni familiari, senza relazioni esterne.
•    Per finire, Goffman usa una parola così semplice, primordiale, in questo brano. “Fame” racchiude oggi, a distanza di oltre 50 anni, la stessa e anzi più inquietante potenza: in questa nostra epoca dell’abbondanza, la “fame” quindi diventa, oggi come allora, “vizio, malattia, razza, COLPA”.

All’interno dell’Istituto Penitenziario di Parma lavora una équipe multiprofessionale che tenta di proporre un modello di “presa in carico e di cura” simile a quello che fuori, sul territorio si incontra in un Centro di Salute Mentale. Questa esperienza nasce sotto la spinta della Regione Emilia Romagna che ha sostenuto questo intervento ed  è stata voluta fortemente dal Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale-Dipendenze Patologiche (DAISM-DP) dell’Azienda USL di Parma, dal Programma Dipendenze Patologiche e dal Programma Salute Penitenziaria. Una sfida. Un obiettivo. Per ora un “cantiere”, con la scritta “Lavori in corso”. Il carcere è diventato per il nostro gruppo di lavoro una realtà visibile, concreta, si è materializzata quella che poteva essere solo un’idea di una “cosa” chiamata carcere. Da “isola grigia” che attira distrattamente lo sguardo di chi percorre la tangenziale per recarsi al nuovo Centro Commerciale della città o all’Ikea, è diventata una “zona grigia”, da attraversare ogni giorno: zona grigia nella definizione che ne ha dato Primo Levi nel suo libro “I sommersi e i salvati”:
“E’ una zona grigia, dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi. Possiede una struttura interna incredibilmente complicata, ed alberga in sé quanto basta per confondere il nostro bisogno di giudicare”.
Entrare in carcere è stata per me una “prima volta” carica di paure e pregiudizi, ma anche di aspettative e curiosità. La prima impressione è stata quella di trovarmi in una realtà totalmente scollegata dal “mondo fuori”, in bilico tra due direzioni: l’isolamento, la struttura chiusa e l’organizzazione custodialistica da una parte e dall’altra la sfida nel tentativo di cura e di rieducazione (riabilitazione se possibile) per la popolazione carceraria tossicodipendente ed affetta da disturbi psichici. Nel tempo la distanza tra il “fuori” e il “dentro” si è ridotta e quello che avveniva nel microcosmo del carcere è diventato sempre più vicino a quello che avveniva nella vita sociale esterna. Dentro e fuori non erano poi così diversi.
Pietro Buffa, Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria in Emilia Romagna ed ex Direttore del Carcere delle Villette di Torino, descrive il carcere come una sorta di “profezia”: quello che avviene dentro l’istituzione carceraria è il rispecchiamento amplificato, deformato di quello che si sta compiendo nella società civile. Basti pensare alla medicalizzazione forzata di ogni tipo di disagio, alla psichiatrizzazione del dolore esistenziale, della fragilità personologica, infine alla predominanza della terapia farmacologica come soluzione, l’unica e la più veloce, ad ogni forma di sofferenza emotiva.
Per prima cosa nel carcere si trova una popolazione numerosa, multiproblematica, con fragilità non solo psicofisiche (quindi inerenti un mandato di cura che come psichiatri e medici ci chiama in causa), ma anche fragili dal punto di vista sociale, relazionale, talvolta anche linguistico, con problemi di scarsa formazione scolastica e professionale. Un lavoro duro, quindi.
Il mandato di cura del gruppo di lavoro riguarda detenuti tossicodipendenti, attraverso l’équipe Nart (Nucleo Assistenza e Riabilitazione detenuti Tossicodipndenti) e l’équipe Salute Mentale, due servizi indipendenti (ma comunicanti) che si occupano il primo del problema delle dipendenze patologiche e il secondo della presa in carico del disagio psichico e della patologia mentale della popolazione carceraria.
La composizione delle due équipe favorisce la presa in carico multiprofessionale dei pazienti, infatti il gruppo curante è composto da un medici, psichiatri, educatori, un’infermiera, psicologhe.
Nel lavoro del Nart si riconoscono vari interventi: vengono presentati i casi  di pazienti tossicodipendenti entrati in carcere, si prescrivono i trattamenti più adeguati, si monitora il loro stato di salute fisica, i pazienti sono assegnati ad un educatore e/o ad una psicologa, si discutono i casi in carico, si programmano gli interventi di rete con l’esterno (SERT, CSM, servizi sociali, tribunale, etc), e con l’interno (Area Trattamentale), vengono affrontati i problemi all’interno del carcere, i rapporti con la polizia penitenziaria, con la sanità penitenziaria.
L’équipe psichiatrica ha come obiettivo primario quello della presa in carico dei detenuti che soffrono di patologie psichiatriche gravi, pre-esistenti la carcerazione o comparse durante la detenzione. Opera con attività consulenziali al medico clinico, si occupa di valutare all’ingresso in carcere la presenza di un disagio psichico o di una patologia psichiatrica, opera uno screening sul rischio suicidario, offre sostegno psicologico; per i detenuti con patologia psichiatrica propone un modello di presa in carico multiprofessionale ed integrato, attraverso visite psichiatriche, monitoraggio clinico, inquadramento diagnostico, impostazione di una corretta terapia farmacologica, colloqui di sostegno psicologico, colloqui educativi, creazione di contatti e di rete sia interna con il servizio di salute penitenziaria e con l’area trattamentale, sia esterni con i servizi sanitari presenti sul territorio per favorire la continuità assistenziale.

L’istituzione che cura…
Il carcere, come detto all’inizio citando Goffman, è una di quelle “istituzioni totali” che ingloba la popolazione che vi vive, riducendo gli scambi sociali, i contatti con l’esterno ed è “caratterizzata da una profonda ingerenza istituzionale nell’autonomia personale”. Le attività dei suoi “abitanti” avvengono tutte dentro uno spazio contratto, condiviso, affollato. Goffman descrive tre caratteristiche essenziali delle “istituzioni totali”: primo, tutti gli aspetti della vita quotidiana si svolgono nello stesso luogo e sotto la stessa autorità; secondo, ogni attività si svolge a stretto contatto di un enorme gruppo di persone che fanno tutti le stesse cose; terzo, ogni attività, spostamento, richiesta viene schedata, annotata, regolamentata da un fitto elenco di normative “secondo un piano razionale appositamente designato al fine di adempiere allo scopo ufficiale dell’istituzione”.
Ma quale lo scopo di un gruppo di sanitari, terapeuti, riabilitatori che operano nel carcere? Ogni istituzione cerca di perpetuare la propria esistenza, persegue i propri fini, ma corre il rischio di disumanizzarsi quando esclude dal proprio sguardo le relazioni, i rapporti umani, le emozioni. Il rischio è che come in ogni “apparato” burocratico il mezzo diventi il fine, la regole sovrastino le persone. Allora il lavoro di una équipe di cura è, oltre a quello di assistere e garantire le cure più adeguate ad una popolazione così problematica e complessa, anche quello di “curare chi cura” o come nel caso del carcere di aiutare chi amministra, chi gestisce, chi contiene. Abbiamo bisogno delle istituzioni, servono a controllare le nsotre spinte distruttive e disordinate, ci permettono, con i rituali e le regole, di pensare  e riflettere. Ma le istituzioni sono “abitate da uomini e donne”, quindi come i suoi abitanti anche l’istituzione può cambaire, modificarsi, crescere. Come scrive Aramando Punzo, uomo di teatro, fondatore della Compagnia della Fortezza del carcere di Volterra che da 25 anni lavora con gli attori-detenuti di questa istituzione:
“Un’istituzione non è immutabile e, come una persona, può cambiare, mutare, trasformarsi, crescere, evolvere. Può non essere sempre uguale a sé stessa, può non ripetersi all’infinito, può felicemente tradire la concezione comune e migliorarsi. Farsi promotrice di innovazione”. In altre parole farsi spinta alla cura e alla salute.