Gigi Dall’Aglio racconta che una decina d’anni fa, quando era metà anni 2000, il pubblico più giovane andava dagli attori a fine spettacolo e chiedeva se avessero portato in scena verità o fantasia. Strano, verrebbe da dire. Come si fa a pensare che L’Istruttoria non sia qualcosa di autentico? Poi, però. Però basta leggere il testo o ascoltare con attenzione le parole di Peter Weiss che il pensiero si devia automaticamente sulla strada dell’impossibilità.
Non è cattiveria, non è meschineria, non è guerra, violenza nemica. No, è qualcosa di molto peggio e di molto più esteso che include – ed è proprio questo forse, o almeno a mio avviso, a rendere la barbarie nazista così pietrificante e incredibile – la scientificità e la macchinazione perfida e, soprattutto, l’insensatezza totale, oltre che la casualità delle vittime. Forse se raccontassimo tutto quanto da zero a qualcuno di assolutamente vergine di informazioni a proposito dell’Olocausto (ammesso che possa esistere), verremmo presi per dei matti dotati di fervida e preoccupante fantasia.

Quello che Peter Weiss scrisse, sono testimonianze, quindi verità. Sono le strazianti verità raccolte durante il processo di Francoforte, tra il 1963 e il 1965, che poi Gigi Dall’Aglio e gli attori di Fondzione Teatro Due (quella che ancora si chiamava Compagnia del Collettivo) hanno coraggiosamene preso in mano e deciso di portare in scena. Era il 1984 e sembrava forse anacronistico mettersi a rimuginare su una storia ancora recente ma sepolta dalle polveri del passato e un po’ anche dell’omertà. Invece è stato un gesto necessario che ancora, a distanza di trent’anni, conserva intatta la sua urgenza.

Perché qualche goccia di fantasia in realtà c’è. Pur sempre di teatro si tratta. Ma non nelle parole, quelle sono autentiche. La fantasia sta celata nell’onirico dentro al quale gli attori hanno deciso di immergere la vicenda; sta anche nei tratteggi di quotidianità e veridicità che rendono ancora più violenti i racconti. Perché di letture, doveva trattarsi, secondo Weiss. E invece no, meglio immaginarselo questo contesto, renderlo vivo e tangibile.

A metà degli anni ’80 sapevamo meno cose rispetto a oggi, il pubblico (giovane soprattutto) entrava in sala preparato fino a un certo punto per poi uscire  dalla sala completamente sconvolto. Lo stupore era l’emozione predominante. Poi sono cominciati gli svenimenti. Chi ha visto o comunque conosce L’Istruttoria lo sa: il testo è molto duro, molto crudo più che altro, e tutta questa crudezza e crudeltà gratuite possono essere destabilizzanti. Quindi, replica dopo replica, città dopo città, hanno iniziato a succedersi svenimenti nel pubblico. Il periodo è tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, dopo il quale si alternano momenti di quasi letargo ad altri di controllato entusiasmo fino all’inizio degli anni 2000, quando la storia contemporanea e i mezzi di comunicazione sdoganano la violenza sempre di più. Sarà che la miopia ci rende difficile il guardare troppo lontano negli anni, sarà che la voce degli anziani è flebile e i racconti d’antan forse non raggiungono del tutto le orecchie, ma è proprio in quegli anni che L’Istruttoria stupisce di più. Qual è la causa? Forse la paura? Il distacco? L’assurdità dei fatti portati in scena? O è proprio il gesto scenico a tradire, a chiudere le testimonianze nel carillon mistificatore del teatro? Perché un conto è leggere una cosa successa, un conto è sentirsela spiegare e vedere attori che si piegano al dovere civico e storico di impersonare giudici, testimoni, vittime e crudeli assassini. È una bella responsabilità. Non lascia indenni. Certe parole, anche se pronunciate per trent’anni consecutivi, feriscono come tagliole e che male che fanno. Non si poteva escludere il coinvolgimento emotivo e un attore, per quanto dedito all’insegnamento, resta comunque un uomo che non può pronunciare con leggerezza avvenimenti così. Peter Weiss aveva previsto un distacco e, posso 

dirlo? Allora la Compagnia ha fatto cilecca. Nella denuncia ha costruito un suo piccolo mondo, descritto nella micro osservazione della quotidianità, ma proprio di quotdianità si è nutrito l’incubo. Un luogo, milioni di persone, gesti quotidiani anche se atroci. Le persone – tutte, indipendentemente dal loro ruolo- avevano un nome, una storia e verosimilmente degli oggetti, che hanno stretto al petto finchè hanno potuto. E non è forse quotidianità quella?
Poi è Weiss stesso che lo dice, una volta nel lager: predomina questa impressione che tutto è molto più piccolo di quello che mi ero immaginato.

F.