Sabato 8 ottobre si è tenuta la conferenza stampa di presentazione delle attività e della Stagione 2011/2012 di Fondazione Teatro Due. 

Ecco le parole del direttore Paola Donati con cui ha introdotto il programma e portato al pubblico una riflessione sull'attuale crisi culturale e politica  e sul ruolo del teatro in questo panorama.

Non si può governare la complessità con un modello unico… e nemmeno esserne sopraffatti

 
In questi anni si sono creati fenomeni di svuotamento di portata delle istituzioni culturali, di sottovalutazione della ricaduta della produzione culturale sul bilancio sociale delle comunità pensando che l’evento rappresentasse il nuovo e in quanto tale potesse sostituire la “vecchia”  funzione istituzionale  esercitata giorno per giorno, nella continuità.
L’Università, la scuola, la cultura, il teatro, il cinema, l’arte sono stati considerati non come spazi insostituibili per la creazione di un’identità individuale e sociale ma come un’aggiunta di immagine più che di contenuto di uno Stato, di un Paese, di una Città.
Chi fa teatro è in contatto fisico continuo con i cambiamenti in atto, per sua natura non può chiudersi o sottrarsi dal partecipare a innescare meccanismi che rimettano al centro i bisogni dell’anima e della mente dell’essere umano, nonostante le priorità decretino da sempre “prima vivere, poi filosofare”… Resistere contro una deriva evidente di valori non basta più, occorre avere un sussulto di ambizione e ripensare come strategia politica la funzione dei luoghi del pensiero e della conoscenza. Creare relazioni e confronti da cui possano nascere nuovi modelli che si radichino nelle città che cambiano, che ci tengano all’erta sui cambiamenti, che offrano un’alternativa al rumore assordante della “comunicazione” ad ogni costo. Le parole sono importanti e occorre ritrovarne un senso comune, esercitarsi a interrogarle, a capire e a sentirne il perché, oltre gli slogan e l’indignazione. L’indignazione dovremmo dirigerla contro la riduzione del mondo a “economia”, a capitale e finanza e cominciare a invocare una “giustizia estetica” insieme a quella sociale. Vivere nell’emergenza di un eterno presente ci impedisce di immaginare il futuro, spesso di desiderarlo…
Il teatro si colloca fin dalle origini a metà strada tra il mercato e il tempio, affonda le sue radici nella nascita della democrazia, ne è espressione e nel suo “piccolo” si impegna ad attuarla nella prassi del vivere e dell’ impegno civile. Il concetto di impegno è appartenuto per molto tempo alla figura dell’intellettuale. Una persona che ha come professione attività dello spirito può o deve prendere posizione su tutte le questioni di interesse generale come la politica, la morale , la giustizia? Per buona parte del ‘900 diversi intellettuali lo hanno fatto. Oggi si ha l’impressione che non siano più gli intellettuali a essere impegnati ma le collettività, gruppi di persone. Di fronte a mali endemici, alla dittatura consumistica, di fronte al cinismo globale chi inserisce ideali e utopie nei propri discorsi non provoca nessuna illusione. Alla parola si preferiscono spesso gli atti. L’esigenza di risposte su ciò che è intollerabile è diventata più pragmatica che teorica, perché la vita di ognuno di noi ne è toccata e colpita. Nella Primavera araba è la strada a sollevarsi, in Spagna, negli Stati Uniti e anche a Parma sono gli indignati a manifestare. Ci sono pochi leader, pochi oratori con formule definitive. Sono in atto sconvolgimenti di fondo. Diremmo del profondo.
Tra gli artisti molti considerano da molto tempo la questione dell’impegno come qualcosa di datato. E’ sul terreno della propria arte che ognuno preferisce mettere tutta l’energia perché l’arte – si dice – è impegno in sé .
Abbiamo cercato di realizzare una stagione con una certa ricchezza di senso, di gesti e di storie dove poetica e politica siano alleate.
Ci sono i grandi temi sociali, il denaro e la corruzione in primis raccontati da Aristofane, Molière, Dürrenmatt e da una creazione dal titolo Così fan tutti! che compie un rapido viaggio tra ‘800 e ‘900 con scene da Giraudoux, Becque, Molnar e dal Dickens di “Tempi difficili”, uno dei suoi romanzi più belli. Ci sono la violenza e la spietatezza di una società in piena crisi economica che esplodono nella grande metafora della maratona di ballo di “Non si uccidono così anche i cavalli” tratto dal romanzo di Horace Mc Coy reso famoso dal film di Sidney Pollack. Ci sono storie di abusi e soprusi nel “Blackbird” di Harrower o raccontate in “Odore di santità” dalla sensibilità chirurgica di Laura Forti – a cui tra l’altro Teatro Due dedica quest’anno un focus d’autore . C’è la precarietà del lavoro e il ricatto sociale messo in scena da Giuseppe Battiston e Gianmaria Testa in 18 mila giorni – Il pitone. Tormentate vicende di coppia ne “Un tram che si chiama desiderio” di Tennessee Williams o nel raffinato gioco di ruoli dell’ “Amante” di Pinter messo in scena da Massimiliano Farau con Graziano Piazza e Mascia Musy. Incomunicabilità e conflitti generazionali in “Tale madre e tale figlia” di Laura Forti o nel “Sacro della primavera”, creazione di Michela Lucenti tratta dal capolavoro di Stravinskij; l’impossibilità ad agire  nell’ “Elektra” di Hofmannstal interpretata da Elisabetta Pozzi.
Ci sono riscritture dai classici come “Nati sotto contraria stella” in cui un’improbabile compagnia di vecchi attori cerca di mettere in scena “Romeo e Giulietta” o “L’amore segreto di Ofelia” dove Berkoff compone un carteggio carnale e sarcastico tra Ofelia e Amleto. C’è il senso del vuoto in un “Wojzeck” costruito da una comunità in continuo movimento eterodiretta da un inquietante maestro di cerimonie. E mentre l’ensemble musicale “Berlin Comedian Harmonists”  – ricostituitisi 70 anni dopo sulla scia del gruppo che il Nazismo aveva costretto a ritirarsi dalle scene per via di alcuni componenti ebrei …- ci incanta con canzoni degli anni ‘20 e ’30 e incursioni nella tradizione classica e popolare internazionale, i musicisti di “Duel” armati di pianoforte, violoncello, grimaldello e sedia a sdraio prendono letteralmente a picconate la storia della musica, in un concerto surreale e virtuosistico  che ci obbliga alla sospensione dell’incredulità.
E alla fine c’è il principio… “Bereshit”, l’inizio della storia del mondo che il Re delle bolle di sapone Pep Bou crea giocando con il fisico Jorge Wasenberg. Jorge Wasenberg è docente  dell’Università di Barcellona dove guida un gruppo di ricerca di biofisica e insegna Teoria dei processi irreversibili.
Che altro aggiungere?! Ci auguriamo che i nostri spettatori, i cittadini del mondo continuino ad avere fame e a voler essere folli, come dice Steve Jobs.
 
 
Paola Donati 
Direttore Fondazione Teatro Due