Un’intervista di Francesco Bianchi, pubblicata su www.blareout.it.
Dal 4 novembre a Teatro Due, Davide Gagliardini e Sara Putignano tornano in scena con Lungs di Duncan McMillan, diretti da Massimiliano Farau. Il testo, di un’attualità sconcertante, parla di una coppia che s’interroga sull’avere o meno un figlio, esplorando tutte le sfaccettature di questa scelta: la difficoltà di portare avanti una gravidanza, l’impatto ambientale di un nuovo essere umano sulla Terra, le ripercussioni sulla vita della coppia. Non senza ironia e con una freschezza che non lascia spazio a facili interpretazioni, i due (Uomo e Donna) attraversano tutto l’arco della loro vita con imprevisti e capovolgimenti, nel continuo rapporto di amore e scontro della coppia contemporanea. La scena, vuota tranne che per una porta sul fondo, è fatta dai corpi e dagli spostamenti degli attori, che attraverso la vita dei personaggi raccontano molte delle incertezze di questo nuovo millennio. Un testo nuovo e brillante, uno spettacolo imperdibile. Abbiamo chiacchierato con i protagonisti, Sara Putignano e Davide Gagliardini.

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L’atmosfera nella sala è distesa, senza formalismi.  Oltre alle gradinate, ci sono alcune sedie che si usano per il pubblico supplementare che affolla la Piccola Sala di Teatro Due. Decidiamo di usarle per sederci in cerchio, al limite dello spazio che ogni sera diventa il raggio di azione dei protagonisti di “Lungs”. Ma forse qualcosa di “rituale” c’è: le battute di inizio intervista, quelle che servono a me, Sara e Davide per metterci a proprio agio. Li rassicuro, non sarà un’intervista lunga. Ridono, non vedono l’ora di cominciare.

Francesco: Partiamo dal principio. Quasi tutti gli spettatori si sono chiesti perché questo spettacolo si chiami “Lungs”. Voi siete stati i primi a sbatterci contro: perché “Lungs”? Qual è stato il vostro rapporto con il testo, e con il titolo di quest’opera?

Sara: in realtà mi sono posta la domanda dopo aver letto il testo. Ma anche se non sapevo precisamente il perché, sentivo che il titolo rappresentava l’essenza del testo. Si tratta di suggestioni. E poi è stata una lettura tutta d’un fiato, con continui cambiamenti emotivi e anche respiratori! E’ simile a quello che succede in scena: la distanza ridotta col pubblico, il rapporto così stretto tra i due protagonisti, creano delle necessità di riflessi respiratori, dati dalle emozioni. E’ un ritmo continuo, come del resto è la vita. E poi c’è il fattore climatico, ambientale, il fatto che loro due (i protagonisti, ndr) parlino sempre di dare qualcosa al pianeta, di fare uno scambio con quello che prendono. Dicono sempre: “Dobbiamo piantare degli alberi, dare ossigeno al pianeta”.

Davide: anch’io ho aspettato a farmi questa domanda, ma leggendo il testo ho capito che la vita di questi due esseri umani è legata all’immagine dei polmoni. L’andare avanti a prescindere dalla volontà, a prescindere da quello che succede e che fa fare discorsi ed elucubrazioni. C’è una continuità del respiro e quindi dell’emozione. Noi leghiamo sempre l’emotività al cuore, mentre in realtà è una cosa relativa ai polmoni, al diaframma. Parte tutto da lì! E poi ho notato durante le prove che la vera nascita, il gesto fondamentale del testo è il respiro, anche nell’ultima scena in cui lei è sulla tomba. Quando cerchiamo di ricordare, di richiamare alla memoria, facciamo sempre un lungo respiro. Quel respiro è carico di significato, riempie lo spazio scenico così scarno e così caratteristico del ricordo.

F: Avete affrontato questo testo insieme a un regista esperto di drammaturgia contemporanea, Massimiliano Farau. Come è stato lavorare su un testo del genere con lui?

S: è stato un approccio e un processo molto naturale. Non ci sono stati scontri di idee, Max (Farau) ci ha messo da subito a nostro agio e ha creato un ambiente di massima serenità e sensibilità in cui nessuna idea è stata appiccicata, ma tutto è stato trovato di comune accordo. E’ stato naturale, come respirare. Max ha rispettato le nostre specificità, e questo è fondamentale.

D: conosciamo Max dai tempi dell’Accademia (Sara e Davide sono entrambi diplomati all’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico di Roma, nella quale insegna Farau) e quando ci ha proposto il testo io ho detto subito di sì, sapevo già con chi andavo a lavorare e ne sono stato entusiasta. L’ambiente di lavoro è importantissimo, e qui le condizioni erano delle migliori! Lui come regista si è interessato all’effetto finale, mentre ha lasciato a noi il percorso per arrivarci (Sara annuisce). Cerca sempre di non distruggere niente di quello che l’attore propone, segue i processi e li commenta con sensibilità. Instaura una comunicazione bellissima e rara.

F: Siete due attori molto giovani, provenienti da una formazione di eccellenza. Nel difficile panorama italiano è bellissimo vedere dei giovani attori che prendono in mano la responsabilità di un testo, per di più contemporaneo. E’ la prima volta che gestite un testo e una messa in scena, dal punto di vista attoriale, senza essere affiancati da attori più esperti? Come ci si sente?

S: è sicuramente la prima volta che affronto tutte queste cose insieme: totalità di attori giovani, testo contemporaneo, ruolo da protagonista. Ma non è stato difficile, perché questo testo permette di parlare di una realtà nostra, con un linguaggio che ci è proprio e con delle caratteristiche che non vertono all’emulazione di niente e nessuno. Qui noi siamo nudi di fronte al testo, siamo dei fogli bianchi, e ci siamo messi in discussione senza paura. E’ un testo che parla di tutte le età, tratta temi importantissimi e molto profondi. Le tematiche che portiamo sono intense, come l’aborto o la possibilità di avere un figlio disabile. Io personalmente non le ho ancora vissute, ma sapere che da attrice, e da donna, devo portare avanti lo status di una donna incinta o che ha abortito è un lavoro duro. Anche con il pubblico si sente questa profondità: le tematiche del testo sono state affrontate dalla maggior parte del pubblico, che guarda lo spettacolo e dice “ma ci sono io lì!”. Appena un argomento viene tirato fuori, l’impatto sul pubblico è immediato. E’ una grande responsabilità e bisogna avere molto rispetto.

D: sono d’accordo. Questo è un testo che dimostra che il teatro parla. Non ci deve essere filtro tra te e il pubblico, i filtri sono la morte del teatro. Creano delle frizioni. Invece il teatro è nato per parlare con la gente, e la gente con noi ci parla! Durante lo spettacolo! E’ una cosa archetipica del teatro, la partecipazione e lo scambio. In accademia cercano di farti vedere delle strutture; poi in questo testo tu entri sulla scena vuota, con delle tematiche di un certo peso. E allora ti senti libero di toglierti tutte queste “giacche”, tutte queste strutture, e c’è per la prima volta uno scambio diretto col pubblico. Gli attori giovani spesso sono messi in uno stato di servitù, non hanno possibilità di gestire le cose. Qui noi possiamo gestirci il testo, lo spazio scenico, le tematiche. E senti che questo testo è fatto per te. Le scuole d’eccellenza c’entrano veramente poco con questo. Entrano in gioco quando sei stanco, quando serve la tecnica (breve riferimento alla tecnica calcistica e al romanista Pjanic, ndr). Però hai le spalle libere. La tecnica pura appesantisce.

F: Una delle cose che mi ha più impressionato quando ho visto il tipo di pubblico che viene a vedere “Lungs” è che sia per la maggior parte giovane. Al di là dell’identità di Teatro Due, che dà molto spazio al teatro giovane, come interpretate questo interesse, questa tendenza che sicuramente non è quella generale? Pensate sia una caratteristica legata al luogo, oppure pensate possa essere vista dovunque? “Lungs”, come testo, ma anche come messa in scena e come interpretazione, può essere preso come un esempio di come si dovrebbe fare un nuovo teatro che appassioni un nuovo pubblico, oltre che nuovi artisti?

S: se penso alle realtà teatrali, mi viene più facile pensarle relativamente ai luoghi cui appartengono. In base a quello che un teatro dà al territorio che lo ospita e in base alla cultura di quel territorio, si crea un determinato tipo di pubblico. Spesso nelle realtà più grandi non si riesce a creare un pubblico affezionato. La gente si stanca facilmente anche in base alla bassa qualità dell’offerta; qui a Parma c’è stata una forte azione sul pubblico. Pensa che siamo stati fermati in un pub da una ragazza di 23 anni che ci ha riconosciuto e ci ha raccontato di aver sparso la voce dello spettacolo a tutti i suoi amici e colleghi, tutti poi venuti a vedere lo spettacolo! E’ stato bello, perché scardina una serie di preconcetti che comunque esistono e persistono sul teatro, per lo meno in Italia. C’è necessità diavere cura del pubblico, da tutti i punti di vista.

D: penso che l’importante sia far sì che succeda qualcosa. Se per la strada senti un grido, un rumore, ti giri subito perché sta succedendo qualcosa. A teatro si deve far succedere qualcosa perché il pubblico si incuriosisca e si appassioni. Ci sono luoghi in cui questo è più facile, la comunicazione è più capillare, altri in cui si pensa che il teatro sia vedere l’attore famoso che recita la solita parte e non ti fa vedere niente di nuovo. Basta far vedere a quel pubblico che esiste altro, e il pubblico viene. E non si tratta della presunzione di fare il teatro con la T maiuscola, ma al contrario di creare partecipazione. In “Lungs” il pubblico partecipa, e se partecipa hai vinto. La partecipazione è uno strumento per mettere una parte di noi in quello che facciamo. Dire qualcosa e avere davanti a te un pubblico che può contraddirti in qualsiasi momento è una responsabilità ma è anche un modo per dimostrare che siamo vivi.

S: mia nonna è venuta a teatro per la prima volta nella sua vita l’altro giorno, a vedermi. E ha parlato. Ed è stato bellissimo, perché ha partecipato. Penso che sia il traguardo più grande che potevamo raggiungere, la partecipazione.