Cosa sarebbe l’incipit di 2001: A Space Odyssey di Kubrick senza la musica? Il poema sinfonico di Richard Strauss Also sprach Zarathustra non è solo un sottofondo “rilassante” (l’aggettivo più frequente abbinato all’ingenua dicitura “musica classica”, come se Monteverdi, Mozart o Rachmaninoff fossero un Valium!), ma contribuisce a ingenerare significato: il tremolo dei contrabbassi e il rullio della grancassa, insieme al pedale tenuto da controfagotto e organo, ci immergono in un “tutto” indistinto e magmatico, che cede subito il passo alla nascita della vita grazie al Tema della Natura, ossia le tre note ascendenti (Do – Sol – Do) intonate tre volte dalle trombe. La semplice e pura immagine non sarebbe sufficiente, da sola, a raccontarci la complessità del momento e quindi, per completare il quadro, si rende necessaria la musica.
In queste settimane di Festival, al Teatro Due abbiamo avuto la dimostrazione di quanto sia stupida la reductio ad unum: il pubblico ha potuto ubriacarsi di danza (con i due spettacoli di Balletto Civile, Paradise e Peso Piuma, e con 32 rue Vandenbranden dei Peeping Tom), di musica (con il violoncello di Julia Kent e le “follie” virtuosistiche di Europa Galante), e nei prossimi giorni potrà continuare con After Romeo and after Juliet, riscrittura del capolavoro shakespeariano degli studenti del corso di Laurea Magistrale in Scienze e Tecniche del Teatro – Facoltà di Design e Arti dell’Università IUAV di Venezia, presentato dal nostro Ensemble stabile e da cinque attori neo-diplomati dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”, diretti da Massimiliano Farau, con la proiezione di Con cuore puro, documentario di Lucrezia Le Moli, con sceneggiatura di Amedeo Guarnieri, incentrato “sull’incerto universo amoroso”, con il concerto del Trio di Parma dedicato ad Antonín Dvořák.
Musica, danza, parola, azione, teatro, cinema, autori classici e creazioni contemporanee, un cocktail offerto tradizionalmente da Fondazione Teatro Due, di cui il pubblico sembra non essere mai sazio, senza preoccuparsi troppo del fatto che media differenti possano abitare uno stesso luogo e concorrere ad un fine condiviso. Non è un caso che il convegno sul multilinguismo organizzato da Poliglotti4.eu e ospitato da Fondazione Teatro Due abbia riscosso tanto successo: evidentemente, la richiesta di pluralismo è molto più diffusa di quanto si pensi.
Proprio Dvořák ci offre un esempio lampante di quanto sia efficace la commistione dei generi: ormai noto a livello internazionale, gli viene offerta la direzione del Conservatorio Nazionale di New York, che accetta nel settembre del 1892. Poco dopo il suo arrivo negli Stati Uniti d’America, Dvořák scrisse una serie di articoli in cui rifletteva sullo stato della musica americana. Benché l’etnomusicologia fosse appena agli inizi, con grande lungimiranza Dvořák sosteneva che la musica degli afro-americani e dei nativi doveva essere usata come base per lo sviluppo della musica americana. Sentiva che attraverso quella, gli americani avrebbero trovato il proprio stile di musica nazionale e grazie all’aiuto del suo giovane assistente, Henry “Harry” Thacker Burleigh (che in seguito diventerà uno dei maggiori compositori afro-americani) si immergerà in quel tipo di musica e di cultura, i cui effetti si faranno sentire soprattutto nel capolavoro di Dvořák, la Sinfonia n° 9 Dal nuovo mondo, ispirata al poema di H. W. Longfellow The Song of Hiawatha, del quale avrebbe voluto servirsi anche per un’opera o una cantata che poi non realizzò.
“La bellezza salverà il mondo” ci ricorda il principe Myškin e per costruire la bellezza non possiamo rinunciare a nessun mezzo espressivo, anche se questo ci mette in crisi e sembra andare contro a disposizioni scelte a tavolino. È complicato? Forse; parafrasando le Lezioni americane di Calvino, è il mondo che “è molto più complicato e vasto e contraddittorio” e se vogliamo comprenderlo, spiegarlo, modificarlo, dobbiamo attrezzarci di conseguenza.
G.