Sarà in scena i prossimi 8 e 9 aprile LA DISCESCA DI ORFEO alle ore 21.00 diretto da Elio De Capitani a partire dal testo di Tennessee Williams, eccezionalmente in italiano. La compagnia del Teatro dell’Elfo è qui guidata da Cristina Crippa nel ruolo di Lady, “emblema di una carnalità indomita, rabbiosa”, che tenta di sconfiggere la morte con l’impresa disperata reinventarsi una vita. Protagonisti accanto a lei Edoardo Ribatto, che offre a Val un carattere brutale, mitigato da una dolcezza quasi femminile e Elena Russo Arman, “bravissima nel tratteggiare la fragile Carol”. Luca Toracca è un livido e infernale Jabe, Corinna Agustoni una Vee Talbott persa tra estasi e desiderio. Completano Federico Vanni, il truce sceriffo, Cristian Giammarini e Sara Borsarelli (già applauditi in Angels in America, nel Racconto d’inverno e in Improvvisamente l’estate scorsa), Debora Zuin e i giovanissimi Carolina Cametti e Marco Bonadei (premio Ubu under 30 per The History boys).
“Cosa mi attrae? Cosa mi attrae ancora in questo autore amato e odiato con la stessa intensità? Questo autore che mi fa inveire cento volte ad ogni messinscena per quel suo lirismo sentimentale da romanzo d’appendice, ma che alla fine, grattando via il rosa e facendolo rosso sangue appena un po’, ecco che ti regala il nero della vita, quel nero stupefacente, quel groppo di viscere e destino che rimanda ai greci e al loro duello, mortale e vitale al tempo stesso, tra l’oscuro primordiale e il tenue, o prepotente, lume della ragione… Mentre noi recitiamo La discesa di Orfeo, Ferdinando Bruni nella sala Fassbinder recita Rosso, la lotta di Mark Rothko contro il nero, la sua laica trascendenza d’artista scova il nemico che divora la tela e lo uccide prima con gli sfinimenti del pensiero e poi a sciabolate di rosso.
E Williams, contro cosa lotta? Anche lui contro il nero, un nero di carne, non di pennellate, ma in ogni caso un nero che mangia i sogni, mangia la speranza, mangia la vita, mangia l’anima: come per Fassbinder, “la paura mangia l’anima”. La crisi, questa crisi che pare infinita, questo ’29 al rallentatore, questo non sentire più la terra sotto i piedi, ci porta a cercare di nuovo Williams. Un “Williams greco” dentro un “Williams-Fassbinder”, dentro persino un “Williams-Brecht-Müller”. Siamo ridotti all’osso (sia delle protezioni sociali che del benessere e dei risparmi delle famiglie) ma questo non ci fa tornare a una condizione precedente, perché siamo immersi in una piena, contraddittoria, ricchissima, modernità: per questo sembriamo l’America di molti anni fa. Si è fatto pressante l’impulso a rivisitare questo nostro primordiale e sempre più limitrofo ieri americano. Ci sentiamo turbati dalla lotta di una creatura che ci si è dovuta calare fino al collo nella palude dei sentimenti e della costruzione ardita di un sogno-speranza: Lady, questa donna d’origine italiana che non cede, anche se ha perso tre vite nell’incendio della vigna di suo padre, bruciato vivo dai razzisti. Ci turba soprattutto quel suo intrico di impulsi e sentimenti, tutti troppo forti: l’odio per il marito che l’ha comprata bella e giovanissima, dopo averla rovinata; l’innamorarsi di Val col franare di ogni sua difesa; l’ostinato progetto di un bar che sia la rinascita della vigna distrutta del padre; il giocarsi tutto per la vendetta, non riuscendo a credere fino in fondo all’amore di Val, se non quando è troppo tardi… Ci turba, perché rimanda a qualcosa che dentro di noi conosciamo molto bene – e non importa se i dettagli della nostra vita non combaciano con quelli della sua. La discesa di Orfeo non ci mostra solo la palude nera a due passi da noi, il primordiale che riaffiora, la zona grigia delle complicità. Ci mostra anche una rilucente contraddittoria bellezza interiore: assieme a Val e Lady emergono le figure opposte di Carol e di Vee che, se non sanno contrastare lo sfacelo, son degne di rispetto perché sanno almeno essere diverse, a partire dal loro intimo sentire. L’intimo sentire. Se vi è un’urgenza etica per l’artista, oggi più che mai, credo sia proprio nell’indagare come agisce la dimensione pubblica e sociale nei paesaggi intimi dell’uomo: pensate a Berliner Alexanderplatz di Fassbinder, al capolavoro della maturità di un artista che amava Williams come nessun altro e che ha saputo restituire il crogiolo sottoproletario della storia rivelato dal romanzo di Döblin. Nella Discesa di Orfeo ci vuol lucidità – spero di averla avuta – per scavare, senza pudore, dentro e contro un materiale di una bellezza tanto scura, sviscerando tre mondi, opposti tra loro: la dimensione sensuale, dove trionfano, soffrono, gioiscono la carne e la passione; e assieme a questa il centro segreto dove pulsa, piccolo e prezioso, il cuore dell’esistenza umana, quella ferita interiore, quella lacerazione non più componibile (neppure nell’abbraccio più travolgente di Val e Lady); infine la socialità del coro che, lasciando a tratti l’antagonismo dei personaggi, veste i panni del testimone partecipe o dell’ ironico commentatore. In questi anni di spietata Belle Epoque al tramonto e a un passo da qualcosa che non conosciamo, penso che sia tornato il grande momento, nell’arte teatrale, di riappropriarsi della sua sfida più ardua: la primordialità tragica accanto alla fragile, liminale, intimità delle creature, per tentare di afferrare di nuovo l’uomo “in tutte le sue contraddizioni e nella sua sempre vulnerata grandezza”: parole di Dougles Sirk nell’orazione funebre a Fassbinder, perfette anche per Williams. Cristina Crippa, che ha voluto con tutte le sue forze che questo Orfeo venisse alla luce a costo di sfidare i miei più profondi e viscerali malumori, mi aveva avvertito: c’è questo ossimoro in fondo a questo testo di Williams, e forse a tutte le sue opere più belle. Una sorta di barbara dolcezza”.
Elio De Capitani