Dopo aver trattato temi come l’immigrazione clandestina, il nazismo, la disgregazione della famiglia, l’inesorabile sradicamento del nostro tempo da tradizioni culturali e religiose, da riti tramandati di padre in figlio, Laura Forti, tra le autrici contemporanee più rappresentate all’estero, affronta un altro argomento di scottante attualità, basato su una storia vera, e lo fa con mano sicura, con un ritmo narrativo incalzante ed evocativo di assalti e fughe, di scontri e di lacrime sul corpo di compagni massacrati.

Una requisitoria sulla guerra in Jugoslavia, un testo duro e politicamente scorretto, che potrebbe riguardare in realtà qualsiasi guerra del nostro tempo. Il protagonista, vittima da stress post-traumatico, anima inquieta percorsa da tic nervosi e spasmi e dai suoi ricordi di ragazzo, della sua Milano, degli amici, dei miti di Charlie Parker e di Robert Capa, ricorda, quella fase della sua vita, quando aveva 23 anni, in cui non sapeva nulla della guerra e, per un fortuito caso, si è trovato a combattere per la Croazia.
Ricordi intrisi di sangue e di ingiustizia, di atroci disillusioni e di ferocità umana scanditi dal denso sospiro di un sax.

È l’imbecillità della guerra – scrive il regista Pietro Bontempo – che si trascina dietro tutto quello che trova. E per colmo di idiozia animale, riesce anche a essere un condensato di vita pulsante fatta di paura e adrenalina che una volta vissuta si rimpiange anche se non si vorrebbe mai aver vissuto. Una contraddizione che alimenta un fascino potentissimo, una tensione continua verso la morte  per esorcizzarla. Nelle età dell’uomo quello stato corrisponde all’incoscienza dell’adolescenza. È successo lì non perché loro sono diversi, né perché cinquecento chilometri ne fanno un altro mondo. Erano una sola nazione e si è spezzato il collante che la teneva insieme. Quanto tempo deve passare per tornare al vivere civile? Questa storia è una storia vera, purtroppo.

 

Consigliato a chi non tollera la parola indifferenza e ama le scelte coraggiose. Da non perdere.

Francesca Motta, Il Sole 24 Ore