Ella rimane vedova nella Germania degli anni Trenta, quando la crisi economica ammazza le speranze, soprattutto se sei donna. Ha poco più di vent’anni, Ella, suo marito Max è morto di cancro, lavorava come operaio gruista e portava a casa uno stipendio. Seppur piccolo, pur sempre una sopravvivenza. Così Ella, senza più marito e senza più speranze, decide di farlo rivivere, di impossessarsi della sua identità e di entrare nel suo corpo di operaio. Si trasforma in un uomo, in Max. Ne prende i vestiti, i vizi e le abitudini.

Questa vicenda è accaduta realmente in Germania durante la Grande Crisi, la maschera è stata indossata per dodici anni. In scena il travestimento dura molto di più, fino a quando Max-Ella è vecchio e sfinito e, testimone di decenni tragici, si toglie il travestimento, un poco per volta, di notte, nell’intimità della sua casa-ricordo. Le calze di seta e le scarpe col tacco la irrigidiscono. Non è più né uomo né donna, l’identità si perde, smarrita nella disperazione; il trucco, da vezzo tipicamente femminile, cancella non solo la femminilità ma l’intera identità e quello che resta è un viso confuso, a metà, perché non importa più essere uomo o donna, importa sopravvivere.

Max Gericke è il racconto di un ricordo – finché c’è ricordo, c’è vita-, la cronaca sconvolgente e toccante di un abbandono; Ella si fa carico del suo dramma personale, si fa inglobare e lo indossa nella lucida consapevolezza di rinunciare al proprio io a tempo indeterminato.

Molti scrittori si sono ispirati a questa quasi favola disgraziata e tragica; Bertolt Brecht dopo aver letto un articolo di giornale ne ha scritto il racconto Il posto o Al sudore della tua fronte tu mangerai il tuo pane e come lui hanno fatto anche Anna Seghers (in La posta della confidenza, ricavato dalla sceneggiatura di un film) e Christa Wolf. La storia ha ispirato film e spettacoli teatrali, tra tutti Jacke wie Hose, di Manfred Karge con protagonista Lore Brunner, passato da Fondazione Teatro Due nel 1984 in occasione di Teatro Festival Parma. Uno spettacolo ricercato, che ha accolto dentro di sé lo svolgimento della vicenda restituendo una doppia problematica, quella del lavoro e quella della donna. Due temi legati strettamente e drammaticamente negli anni Trenta, negli anni Ottanta ma anche oggi, a quasi un secolo di distanza. Quella che Lore Brunner ha portato in scena e che, ancora oggi dopo il debutto nel 1990, viene rappresentata magnificamente da Elisabetta Pozzi a Teatro Due è la ferocia di certi accadimenti, della povertà e della violenza che costringono gli esseri umani a deformarsi e piegarsi, mettendo in discussione prima di tutto il loro stesso stato di individui con una definita unicità.