Che cosa succede quando, tra la scrittura e la lettura, ci si mette di mezzo il corpo? Come può una parola smettere di essere una serie di macchie ben congegnate d’inchiostro su una pagina e diventare una partitura fisica per un gruppo di attori e danzatori? Che cosa c’è nel mezzo, nella terra di nessuno tra scritto e parlato, tra letto e detto? Michela Lucenti, danzatrice, regista e fondatrice di Balletto Civile (una delle realtà più interessanti del teatro-danza in Europa) sta lavorando a Sonnets Dance, una creazione originale a partire dal lavoro più misterioso e controverso di William Shakespeare: i suoi sonetti. Materiale spinoso, quello dei Sonnets, pieno di pieghe e di zone d’ombra, un luogo geografico in cui intere generazioni di studiosi e appassionati si sono perse vagando tra le insidie e le trappole di un maestro della parola come il Bardo. Ma una cosa è chiara: dietro le parole, qualche centimetro o qualche era geologica prima o sotto la scrittura del sonetto c’è un movimento, un bisogno, una danza. La danza di un’emozione, di una reazione, di un concetto. Quando si lavora in modo fisico con ciò che di più etereo esiste, la poesia, viene da pensare (o da ripensare) che il rapporto causa-effetto tra la parola e ciò che significa possa a volte essere invertito. E che l’azione scenica possa essere concepita non in modo descrittivo o illustrativo, ma che si faccia corpo e atto in sé, esplodendo di vita come solo le parole più eterne possono. Infatti in questo rapporto a doppio filo tra parola e azione, a volte sono le parole a ispirare un’esplosione di corpi, mentre a volte il corpo stesso prende il sopravvento e si pone lì dove la parola ancora non è formata, in quella zona di immediatezza che poi altro non è che quella del teatro. E allora il corpo diventa parola, gesto, senso.

Il sonetto che si è scelto di esplorare per questa creazione che andrà in scena il 19 novembre nell’ambito della Shakespeare Marathon, il 121, è una dichiarazione d’amore fortissima, e contemporaneamente un violentissimo J’accuse. Se, infatti, il misterioso destinatario dei Sonnets è anche qui delineato ma mai scoperto, il poeta trae da questa segretezza e da questo amore non convenzionale l’occasione di sbeffeggiare i benpensanti, di tirare schiaffi a chi si pensa migliore degli altri, di inneggiare alla libertà di amare chi si vuole. Un tema estremamente moderno, qualcuno direbbe attuale, che sembra parlare del nostro tempo. E anche in questa direzione indaga Michela Lucenti, per la quale il movimento primigenio di difesa delle proprie passioni e di attacco verso chi vuole imbrigliare la libertà sentimentale sta tanto alla base del sonetto che all’interno di un lavoro, quello del corpo, che proprio nell’interazione e nello scambio trova la sua ragion d’essere. Senza smettere mai di porsi domande su cosa sia lecito, cosa non lo sia, e su quanto gli impulsi che vengono dal corpo possano veramente sottostare allo sguardo indagatore di chi giudica. Anzi, forse il senso di questo lavoro è proprio dove non dovrebbe essere: non nel cercare ad ogni costo una risposta, ma nel perseverare a porsi domande.

Francesco Bianchi