Cosa c’è di più fragile di un essere umano negli anni della sua adolescenza? Se lo chiedono gli attori di “Prof, che cosa vuol dire essere vivi?”, che sotto la direzione di Vincenzo Picone stanno facendo le prove di una messa in scena che è molto più che uno spettacolo. Infatti già l’impianto, con il pubblico in mezzo all’azione, in un fuoco incrociato di battute e reazioni che impediscono a chi guarda di essere alieno a quello che succede tra i personaggi, fa capire che l’intento non è solo di divertire, non solo di rappresentare. Il coinvolgimento è proprio quello che Willy e Jeanne cercano nel loro rapporto a due, e di più nel rapporto con tutto quello che sta loro intorno, dalla classe della loro scuola fino al mondo intero. Ed è proprio in classe che si parla in questo classroom play, spettacolo concepito per essere agito nelle classi delle scuole d’Europa e del mondo, in un progetto che Teatro Due porta avanti da anni conciliando la produzione e la formazione e guardando non solo al pubblico del futuro, ma ai futuri esseri umani.

C’è una richiesta fondamentale nei protagonisti di questo testo, ed è quella di trovare il proprio posto in un mondo che sembra non capirli e che rivela quanto qualcosa che (troppo spesso) viene liquidato come “conflitto generazionale” sia in realtà una frattura continua, che passa longitudinalmente di adolescenza ad adolescenza senza discriminazione di epoca o di decennio. Fratture e squarci, dunque, che rappresentano da una parte la “normalità” legata alla crescita dell’individuo, dall’altra sono forse lo spettro di un malessere violento, pericolosissimo, che può arrivare a gesti estremi. E così se l’adolescenza è la fine dell’età del gioco e l’inizio di tutto ciò che è serio (anche le cose più spiacevoli), allora anche la risonanza dei pensieri è più reale, e la scherzosa minaccia con la mano che mima una pistola può troppo facilmente trasformarsi in un atto definitivo, violento, spaventosamente reale.

Siamo tutti coinvolti in questo cambiamento, specialmente coloro che dall’adolescenza sono già passati e ora si trovano a dover accompagnare chi oggi cresce attraverso questo sentiero scosceso. Coloro che formano, i professori. Molte delle domande che questo testo solleva, in una dinamica interattiva e quindi sempre nuova, sono rivolte proprio a loro, e dalle risposte può dipendere l’andamento futuro della vicenda, che si snoda tra i meandri della scrittura e le ombre di un delitto, nella narrazione di un uomo che è allo stesso tempo scrittore e antropologo forense. E non a caso: la vita è scritta e studiata, rimbalza tra le pagine e i profili psichiatrici, e ciò che viene da dentro deve in qualche modo uscire, esplodere, per far spazio al mondo che in modo così violento entra nella vita di un adulto appena nato. Il mondo magico viene rimpiazzato da qualcosa di molto meno poetico e molto più forte, che altro non è che essere vivi. C’è bisogno di rinforzarsi, c’è bisogno di affrontare le proprie fragilità. Non sempre è facile, non sempre si è accompagnati nel modo giusto. E soprattutto, se la fragilità non viene accudita, se passa inosservata, può trasformarsi in rottura. E la rottura può portare cattiveria, malvagità. Può diventare il male.