Niente invecchia come le traduzioni.
La parola italiana “tradurre” lascia intendere che ci sia un senso preesistente alla parola
che si può trasportare da una lingua all’altra ottenendo una corrispondenza univoca.
Tradurre è in realtà un atto ermeneutico, un atto di interpretazione.
E l’interpretazione cambia col mutare delle circostanze storiche,
della cultura delle conoscenze, delle informazioni che si hanno su un testo.
Luca Fontana
Portare sulla scena Amleto presenta due difficoltà enormi: la prima è il fantasma perché se questo non è credibile, Amleto non ha ragione di agire; la seconda è “chi fa Amleto?” questione che – se non si è presuntuosi, autoreferenziali, velleitari – non si liquida soddisfacendo la conditio sine qua non relativa alla bravura, temperamento, virtuosismo del protagonista, virtù indispensabili per poter attraversare tutte le variazioni presenti nella scrittura del personaggio.
Il Teatro Farnese ha subito risolto la difficoltà del fantasma. Il Farnese è un teatro abitato dai fantasmi ed è esso stesso un teatro fantasma; il problema quindi è svanito una volta entrati nella pancia di questa biblica balena. Il Farnese ha pure subito rimosso l’enorme questione dell’imprinting romantico e delle relative incrostazioni stratificatesi per circa due secoli sul testo che hanno deviato il senso e la natura dell’opera. Ecco, quel Teatro – non certo costruito per l’introspezione romantica o il voyeurismo borghese – collimando cronologicamente col periodo shakespeariano rendeva giustizia all’epoca in cui il testo è stato scritto, pensato, portato sulle scene. Amleto poteva così forse tornare a essere una figura ben radicata nel suo tempo, un nobile in un mondo di nobili, un Principe. E non proprio quello che si definisce un carattere romantico, non un “nostro contemporaneo”, ma forse qualcuno che ci ha preceduto, un lontano antenato.
La cosa che senza forzatura alcuna il Farnese permetteva era la suddivisione degli spazi a seconda dei ruoli – non intesi come role teatrali, ma come ruolo nel Theater of the World – e la conseguente assegnazione di luoghi deputati: il popolo (o spettatori) di fronte in basso, la corte sul palcoscenico, il fantasma (quindi religiosità, soprannaturale, esoterismo, filosofia occulta rinascimentale) in alto fra le colonne delle logge superiori del Teatro Farnese. E il Principe Amleto si sposta dall’uno all’altro collegando gli spazi del Teatro cioè i grumi di pensiero del Mondo: il Mondo del compiuto ovvero il palcoscenico dove i caratteri sono definiti e definitivi, quello in basso cioè il Mondo dell’ascolto, del dubbio, dell’indignazione, della fascinazione, dell’attesa e infine il Mondo superiore summa del pensiero ermetico e motore occulto dell’Umanesimo e del Rinascimento.
Amleto rappresenta anche coloro in basso? Gli “indizi” nel testo sono fortissimi però si deve sempre fare i conti con l’epoca di Shakespeare, ricca di capovolgimenti prospettici, non sovrapponibile e corrispondente alla nostra. Ciò detto, Amleto ha studiato Wittenberg proprio lì, dove sulla Cattedrale Martin Lutero affigge le sue 95 Tesi; veste di nero, ma qui il nero non è quello del lutto o dei puritani o dei borghesi (e nemmeno dei malinconici romantici dello spleen che sorgeranno assai più tardi) bensì il plumbeo colore dei soggetti a Saturno, gli studiosi, coloro che ammettono per “degno compagno” quell’Angelo della Melencolia inciso da Dürer. E veste di nero perché non ha ruolo (o non ha più un ruolo, svanito è ormai il Principe e con lui il Buongoverno) e, in relazione perfetta a quanto scrive Erasmo negli Adagia “L’abito fa l’uomo”, il suo abito nega l’abito quindi afferma “Non riesco a far carriera”. Re, Regina, Consigliere, corte, nobili, indossano abiti definiti, obbligatoriamente “sfarzosi”, segni del comando e di certezza del ruolo che occupano nel mondo: Theatrum mundi.
Leggendo il testo – rifuggendo l’aggiornamento del “sembra oggi!” che rende ogni cosa uguale – si percepisce con chiarezza la fine di un’epoca (il 1600 è la più probabile data di composizione del testo, ma è anche l’anno della morte sul rogo di Giordano Bruno che a Londra era figura importantissima) e le opere del passaggio, se consapevoli della fine, sono sempre le più interessanti perché strutturate sui ricavi e sulle perdite. È un bilancio che tratta della fine del rinascimento non solo inglese, della fine dell’Uomo – immaginato da Ficino a Galileo, da Pico a Leonardo, da Zorzi a Monteverdi, da Montaigne a Copernico – “così nobile nella ragione, così infinito nelle facoltà, e per forma e moto così perfetto e ammirevole, e nell’azione così simile a un angelo, e a un dio nell’intelletto”. Tutto ciò è nel testo o meglio, tutto ciò è il testo. E oltre i dialoghi con Rosencranz e Guilderstern pure quelli con Orazio (maestro di stoicismo e suo angelo melancholico), quelli con la madre, con Ofelia, i dialoghi col Pubblico, con gli Attori marcano il passaggio dall’Utopia della costruzione di un mondo armonico all’usurpazione di Claudio con l’assassinio del fratello, padre di Amleto. Vi sono eventuali riferimenti alle guerre tra cattolici e riformati? Forse alla pace di Augusta del 1555 – che stabilì che pure un passaggio violento di proprietà d’uno Stato portasse con sé il cambio di religione dei sudditi – “Di chi è la regione, di lui sia la religione” (Cuius regio, eius religio)? È palese che tali probabili riferimenti mutino senso a parole e a testo, cancellando l’universalizzazione romantica ottocentesca che ha trasformato l’Uomo rinascimentale, quindi il Principe, in individuo solingo, afflitto, dubbioso. Storicizzando il significato gli accadimenti tornano a ricollocarsi nella Storia allontanandosi, è vero, dal nostro tempo, ma per riaccostarsi a noi in virtù del disincanto e dello sconforto che Amleto ci mostra e ci racconta ricordandoci più e più volte com’era il mondo prima e com’è ora, che ogni cosa s’è corrotta e imputtanita e la crapula regna e “il re veglia stanotte, in gran baldoria; ci si sbronza, turbina spavalda la gagliarda, e mentre lui si scola vin del Reno, timpani e trombe sbraitano il trionfo a ogni suo brindisi”. Quando Amleto parla del mondo prima dell’usurpazione c’è nostalgia e la sua sconfitta ce lo riavvicina e lo rende nostro simile pur se le nostre sconfitte e delusioni sono assai differenti.
ph. Tommaso Le Pera
Che “Danimarca” stratificata e contradditoria! Polonio è ancora legato all’Europa dei matrimoni, delle famiglie, degli intrecci dinastici; Rosencranz e Guilderstern sono (probabilmente) due ex-riformati, hanno studiato da Wittenberg col Principe, lo tradiscono mettendosi al servizio di Claudio; la stupefatta Ofelia che non sa della finzione di pazzia di Amleto e vede lo sbriciolarsi dell’ideale di Principe sul modello di Castiglione; e poi l’irruzione nel Mondo del basso mondo cioè del becchino, di colui che seppellisce il passato, al quale Amleto non sa ben rapportarsi perché non uso a un linguaggio irrispettoso verso gli antenati.
E c’è un’altra dimensione del Principe, il rapporto con il teatro. Il testo pare anche un grande trattato sul Teatro e sull’arte della rappresentazione e della recitazione. Amleto passa senza soluzione di continuità dalla recitazione alla rappresentazione, dal soliloquio (non monologo) al dialogo, dall’azione alla riflessione, è una grandissima lezione sul teatro dell’epoca rinascimentale che si dipana per tutta la durata della storia. E se non bastasse ci sono le famose raccomandazioni agli Attori che sono la chiave per comprendere il come mettere in scena il testo. È evidente che il Principe conosce e pertanto sia lui a dire agli attori come si debba fare (era normale così facesse un nobile nel Rinascimento), ma nelle raccomandazioni c’è pure la riflessione sul ruolo che nel mondo si possiede e che il teatro codifica in caratteri: se non si è accolti nella galleria dei caratteri del Teatro non si entra nella Storia.
L’interesse è stato per tutto il testo senza tagliare nulla. Il romanticismo ha fatto di quest’opera il proprio manifesto e l’ha travisata. Con una recitazione d’impronta romantica infatti la durata della rappresentazione può superare le sei ore, ma i rapporti di polizia londinesi che annotavano inizio e fine parlano di circa tre ore e mezzo. La durata deriva quindi soltanto dall’impostazione romantica. È un testo di accadimenti non di meditazione; non è una questione di traduzione, ma d’azione. Il problema è il tempo musicale con cui si recita. Potendo contare per il ruolo principale di un’attrice come Elisabetta Pozzi, vera intelligenza e istinto teatrale del palcoscenico, orchestra e macchina dei suoni, non c’erano dubbi che il tempo e il ritmo stabiliti sarebbero stati rispettati da tutti poiché è Amleto che dirige de facto la grande “orchestra” degli attori. Infatti (pur se in lingua italiana) lo spettacolo ha superato di pochissimo le tre ore e mezzo. Ovviamente le qualità di Elisabetta Pozzi andavano e sono andate ben oltre questo.
Dell’Ottocento solo una cosa ho mantenuto, affidare il ruolo di Amleto a un’attrice. Aldilà dei problemi di vanità, Amleto non ha sesso, non è connotato com’è Romeo o come Otello, è il Principe che assiste al (suo) Mondo che va in pezzi e quando confesserà a Ofelia “Io non t’ho mai amato” sa che si può davvero amare unicamente in un mondo perfetto, ma lei non può “comprendere” il discorso di un Principe che assiste al dissolversi d’ogni ideale rinascimentale. Ma infine questa creatura che il romanticismo ha mostrato come un tormentato, in preda ai dubbi, questo eterno indeciso, infine stermina tutto il suo mondo: Polonio, Rosencranz, Guilderstern, Laerte, Claudio e se stesso. La morte di Amleto è la fine del testo e dell’epoca e trascina nell’Orco tutto e tutti e apre la Storia a Fortebraccio: nomen est omen.
AMLETO, di WILLIAM SHAKESPEARE
Parma, Teatro Farnese
Last but not least
Il lavoro fatto dalla Fondazione Teatro Due, Paola Donati e tutto staff è stato eccezionale anche perché eccezionale era il testo e il modo d’uso del Farnese. Nel Teatro in soli 20 giorni (è un museo) si sono montate e regolate tutte le attrezzature nonché le prove in loco con 42 gradi (annus horribilis) e circa 10 ore per notte (il giorno era riservato ai montaggi e ai tecnici). Praticamente non ci si poteva permettere alcuna défaillance. Tutti gli spazi del Teatro sono stati utilizzati e in linea retta misurano fra i 70mt e i 90mt e forse è la prima volta in cui il Farnese è stato usato come una macchina barocca per inscenare un testo barocco. Posti stabiliti dalla Soprintendenza e dalla Commissione di Vigilanza d’allora che così giustamente imponeva cioè limitati a 400 e 10 repliche che nonostante la temperatura torrida di luglio e la durata della rappresentazione sono stati tutti esauriti. Da cui si capisce che davanti a cose uniche o rare, difficili o eccezionali non è necessario scomodare gli eventi e l’eventismo. Il lavoro di traduzione di Luca Fontana è stato fuor dall’ordinario. Con lui s’è parlato dei possibili significati del testo, dei riferimenti a Montaigne, della varietà di linguaggi nell’opera, dei versi, della prosa, del volgare, per consentire all’attore molteplicità d’approccio per i differenti caratteri, diversità che per il pubblico diventa vero piacere della lingua: non c’è la coerenza della noia. L’enorme lavoro fatto da Tiziano Santi e la necessaria modestia per affrontare e rispettare un tale monstrum, evitandone un uso sacrilego, lasciando solo agli attori l’utilizzo della gradinata e delle gallerie, ricostruendo per il pubblico un prolungamento delle gradinate, insomma un’opera scenografica che s’inseriva nella pre-esistente e (pur se una ricostruzione post bellica) non ne violentasse l’architettura, non degradando il luogo a semplice “location”. Il grande lavoro delle luci di Claudio Coloretti che dentro un non-teatro come il Farnese è opera veramente complicata, è stato magnificamente svolto creando non opere auto referenziali, presuntuose, monumenti a sé stessi, ma efficaci e utili affinché la storia di Amleto potesse essere raccontata “come se” tutto stesse accadendo sotto i nostri occhi. I costumi di Giovanna Avanzi segnano la differenza tra i mondi compiuti e quelli in divenire, tra i ruoli e i caratteri codificati del teatro e le mutazioni nel corso del tempo della rappresentazione. E poi il lavoro musicale sulle indicazioni del testo originale fatto da Danilo Grassi (purtroppo nel filmato la musica della scena del duello è andata perduta). Il lavoro acustico di Daniele D’Angelo per portare agli spettatori la voce degli attori cosicchè tutti potessero sentire: lavoro non facile per le dimensioni spaziali e la diversità dei luoghi agiti. Karina Arutunyan – assistente alla regia straordinaria e unica. La compagnia numerosissima, disciplinatissima, sinceramente attenta, incredibilmente efficace. A tutti un caldo rinnovellato ringraziamento. In questi vent’anni, Ruggero Cara, Cosimo Cinieri, Chicco Alcozer e Giancarlo Condè ci hanno lasciato per sempre. A loro è rivolto un ricordo affettuosissimo.
Walter Le Moli