Peter Weiss – Inferni

La mia località

 

Riflettendo su quale regione di un paesaggio o insediamento umano fosse più adatto a essere abbozzato in questo atlante, emersero all’inizio molte possibilità. Tuttavia, partendo dal luogo dove sono nato, che ha nome Nowawes e che, stando alle informazioni, dovrebbe trovarsi proprio vicino a Potsdam lungo la linea ferroviaria per Berlino, passando per le città di Brema e Berlino, dove ho trascorso la mia infanzia, fino alle città di Londra, Praga, Zurigo, Stoccolma, Parigi, dove sono finito successivamente, tutti questi luoghi di soggiorno assumono un carattere provvisorio, per non parlare poi delle tappe intermedie più brevi, tutti quei paesini, si chiamino Warnsdord in Boemia, o Montagnola nel Ticino o Alingas nella Svezia occidentale.
Erano posti di passaggio, offrivano impressioni in cui l’elemento essenziale era la precarietà, il rapido sparire, e se esamino che cosa adesso si potrebbe mettere in risalto e ritenere degno di rappresentare un punto fermo nella topografia della mia vita, incappo sempre in quest’arretrare, tutte quelle città diventano punti ciechi e solo una località resta, dove ho trascorso soltanto una giornata.
Le città dove ho vissuto, con le case in cui ho abitato, le strade su cui ho camminato, la gente con cui ho parlato non hanno contorni definiti, confluiscono una nell’altra, sono parte di un unico mondo terreno che cambia di continuo, esibiscono qui un porto, là un parco, qui un’opera d’arte, là una fiera, qui una stanza, là un androne, sono presenti nella trama del mio vagabondare, in una frazione di secondo si possono raggiungere e poi di nuovo abbandonare, e le loro peculiarità vanno ogni volta reinventate.
Solo quell’unica località, di cui sapevo da tempo, ma che ho visto solo tardi, occupa un posto a parte. È una località, a cui ero destinato e a cui sono scampato, e dove io stesso non ho fatto esperienze. Niente mi lega ad essa se non il fatto che il mio nome era nella lista di coloro che vi dovevano essere trapiantati per sempre. Ho visto quella località vent’anni dopo. È immutabile. I suoi edifici non possono essere confusi con nessun altro edificio.
Ha un nome polacco, come la mia città natale che qualcuno forse una volta mi ha indicato dal finestrino di un treno in corsa. Si trova nella regione dove mio padre, poco prima che nascessi, aveva combattuto in un leggendario esercito imperial-regio. La località è dominata dalle caserme ancora intatte di quell’esercito. Per renderlo più comprensibile a coloro che risiedevano e lavoravano lì il suo nome fu tedeschizzato.

Alla stazione di Auschwitz passano sferragliando i treni merci. Fischi di locomotive e sbuffi di fumo. Respingenti che si urtano cigolando. L’aria satura di vapor di pioggia, i sentieri zuppi, gli alberi spogli e umidi. Fabbriche nere di fuliggine, circondate da mura e filo spinato. Carri di legna passano scricchiolando, trainati da cavalli scheletrici, con il contadino imbacuccato, terreo. Vecchie donne sul sentieri, avvolte in coperte, con in mano i fagotti. Più in là nei campi fattorie isolate, cespugli e pioppi.
Tutto triste e liso. Incessanti i treni lassù sull’argine della ferrovia, passano lentamente su e giù, grate ai finestrini dei vagoni. Diramazioni dei binari portano più in là, alle caserme, e ancora oltre, per campi desolati fino alla fine del mondo.
Al di fuori degli insediamenti, che dopo l’evacuazione tornano a essere abitati e danno l’impressione che la guerra sia appena finita, si ergono le cancellate davanti al complesso che oggi è stato dichiarato museo. Automobili e pullman sono fermi al parcheggio, proprio adesso una classe di scolari sta entrando dal portone e un gruppo di soldati con i berretti rosso vino torna indietro dopo la visita. A sinistra una lunga baracca di legno, e dietro uno sportello per la vendita di opuscoli e cartoline. Surriscaldate le stanze dei guardiani. Subito dietro la baracca, bassi muri di cemento, più su un pendio erboso che sale fino al tetto piatto con il tozzo comignolo quadrato. Sulla pianta del Lager, constato di essere già davanti al crematorio, il piccolo crematorio, il primo crematorio, quello a capacità limitata. La baracca davanti era la baracca della sezione politica, dove si trovava il cosiddetto “ufficio di stato civile”, in cui si registravano gli arrivi e le partenze. Qui stavano le dattilografe, qui la gente con l’emblema del teschio entrava e usciva.
Sono venuto di mia spontanea volontà. Non sono stato scaricato da nessun treno. Non sono stato spinto con i manganelli dentro questo recinto. Arrivo con vent’anni di ritardo.
Inferriate davanti alle piccole finestre del crematorio.
Di lato una pesante porta fatiscente che pende sbilenca dai cardini, freddo umido all’interno. Pavimento di pietra che si va sgretolando. Subito a destra una camera con una grande stufa di ferro. Davanti alla stufa binari con sopra un vagoncino di metallo a forma di truogolo lungo quanto un uomo. In fondo al seminterrato altre due stufe con i carrelli per i cadaveri sulle rotaie, gli sportelli della stufa spalancati, polvere grigia all’interno, un mazzo di fiori rinsecchito in uno dei carrelli.
Senza pensieri. Senza altre impressioni se non che sono qui da solo e fa freddo, le stufe sono fredde, i carrelli immobili e arrugginiti. L’umidità cola dalle pareti nere. C’è il vano di una porta. Conduce alla stanza attigua, una stanza lunga, la misuro coi miei passi. Venti passi di lunghezza, cinque di larghezza. Le pareti imbiancate e scrostate, il pavimento di cemento consumato, pieno di pozzanghere. Nel soffitto, tra le massicce travi portanti, quattro aperture quadrate, infilate come pozzi attraverso la spessa colata di cemento e chiuse da coperchi. Freddo. L’alito davanti alla bocca. Fuori, in lontananza, voci, passi. Cammino lentamente attraverso questa tomba. Non provo niente. Vedo solo questo pavimento, queste pareti. Constato: attraverso le aperture nel soffitto veniva gettato il preparato granuloso, da cui nell’aria umida si sprigionava il gas. In fondo alla stanza una porta rivestita in ferro con uno spioncino e dietro una scala stretta che porta fuori. Fuori.
Lì si erge una forca. Un palco di tavole, con botole aperte verso il basso, sormontato dal palo con la trave orizzontale. Un cartello informa che qui fu impiccato il comandante del Lager. Quando stava in piedi sul palco, con il cappio intorno alla gola, vedeva davanti a sé, dietro la doppia recinzione di filo spinato, la strada centrale del Lager, con i pioppi ai lati.
Salgo lungo il pendio sul tetto del crematorio. I coperchi di legno, rivestiti di cartone catramato si possono sollevare dai fori d’immissione. Sotto ci sono le segrete. Personale sanitario con maschere antigas apriva i barattoli di latta verde, versava giù il contenuto sui visi rivolti verso l’alto e rimetteva velocemente il coperchio a posto.
Avanti. Sono ancora fuori dal Lager. La forca si erge sulle fondamenta della baracca degli interrogatori, dove c’era una stanza con un’impalcatura di legno, sormontata da un tubo di ferro. Stavano appesi al tubo di ferro e venivano dondolati e picchiati a sangue con il nerbo di bue.
Gli edifici delle caserme sono attaccati l’uno all’altro: la fureria, l’ufficio del comando, l’infermeria delle guardie. File di alte finestre sovrastavano il Bunker del crematorio. Da ogni punto si vede il tetto piatto sul quale saliva il personale sanitario. Proprio lì accanto le finestre della baracca, da cui si potevano udire i colpi e le urla provenienti dalla stanza dell’altalena.
Tutto stretto, compresso. Si passa davanti ai pilastri di cemento che sorreggono un doppio reticolato di filo spinato. Hanno isolatori elettrici. Cartelli con la scritta: VORSICHT HOCHSPANNUNG (Pericolo Alta Tensione). A destra capannoni, edifici simili a stalle e alcune torri di guardia, a sinistra un casotto con uno sportello, e davanti una mensola sotto il tetto sporgente per timbrare i documenti, poi d’un tratto la grande porta, con la scritta in ghisa, dove la parola centrale MACHT [1] sovrasta tutte le altre. Una sbarra a strisce rosse e bianche è sollevata, entro nel quadrato denominato Campo Grande.
Ho letto e udito molto al riguardo. Su quelli che qui all’alba marciavano per andare al lavoro, nelle miniere di pirite, a costruire strade, nelle fabbriche dei padroni, e la sera ritornavano, in file di cinque, portando i loro morti, sulle note di un’orchestra che suonava laggiù sotto gli alberi.
Cosa significa tutto questo, cosa ne so io? Adesso so soltanto come sono queste strade, orlate di pioppi, diritte, intersecate ad angolo retto da strade laterali e, in mezzo, i Blocks a due piani di mattoni rossi, tutti uguali, lunghi quaranta metri, numerati da 1 a 28. Una piccola città incarcerata con un ordinamento coercitivo, completamente abbandonata. Qua e là un visitatore nella nebbia acquosa guarda con estraneità verso le case. Lontano in un angolo passano i bambini guidati dal maestro.
Qui l’edificio delle cucine nella piazza principale con davanti una garitta di legno con tetto a punta e banderuola, decorata allegramente con mattoncini colorati che sembrano presi da una scatola di costruzioni. È la garitta dell’ufficiale di servizio, da qui veniva sorvegliato l’appello. Un tempo sapevo di quegli appelli, di quello stare in piedi per ore sotto la pioggia e la neve. Adesso so soltanto di questa piazza fangosa e deserta, con al centro tre travi piantate in terra, che reggono una sbarra di ferro. Sapevo anche questo, che stavano lì sotto la sbarra, in piedi su sgabelli e poi gli sgabelli gli venivano tirati via di sotto e gli uomini dai berretti col teschio si aggrappavano alle loro gambe per spezzargli l’osso del collo. Vidi la scena davanti a me, quando lo lessi e ne sentii parlare. Ora non la vedo più.
Prevale l’impressione che sia tutto più piccolo di come me l’ero immaginato. Da ogni punto è visibile la delimitazione, il muro grigio chiaro formato da blocchi di cemento dietro il filo spinato. Sull’angolo esterno destro ci sono i Blocks dieci e undici uniti da mura, davanti, al centro, il portone di legno aperto sul cortile con il Muro Nero.
Questo Muro Nero, con ai lati corti tavolati sporgenti per fermare le pallottole, è ora ricoperto di pannelli di sughero e corone di fiori. Quaranta passi dal portone al Muro. Schegge di mattone conficcate nel terreno sabbioso. Ai piedi dell’edificio di sinistra che ha le finestre sbarrate da tavole, corre il canale di scolo, dove si raccoglieva il sangue dei fucilati ammucchiati. A passo di corsa, nudi, uscivano a destra dal portone, scendendo i sei gradini, a due a due, tenuti per le braccia dal Kapo del Bunker. E dietro le finestre sprangate, nel Block di fronte stavano le donne, a cui veniva riempito l’utero con una sostanza bianca simile al cemento.
Qui c’è il lavatoio del Block undici. Qui, quelli che dovevano andare al muro posavano i miseri abiti a strisce azzurre, qui, in questa piccola stanza sporca, incatramata in basso, intonacata in alto, piena di macchie e schizzi nerastri e rugginosi, con una vasca di alluminio per lavarsi lungo le pareti, interrotta da tubi neri, attraversata dalla conduttura di una doccia, stavano in piedi, con il numero scritto a inchiostro sulle costole.
Qui il lavatoio, qui il corridoio di pietra, diviso da inferriate, davanti la camera del capobaracca con la scrivania, il lettino da campo e gli armadi, alla parete la parola d’ordine EIN VOLK EIN REICH EIN FÜHRER (Un popolo, Un Reich, Un Führer), una rete metallica davanti alla porta: sembra di guardare in una vetrina. Come un panoptico è anche la stanza del tribunale là di fronte, con il lungo tavolo per le riunioni, i fascicoli dei verbali sulla tovaglia grigia, perché di tanto in tanto le condanne a morte venivano anche pronunciate da uomini che oggi vivono onestamente e si godono la loro rispettabilità borghese.
Ecco la scala che porta giù ai Bunker. Qualcuno si è preso la briga di decorare le pareti con un bordo di marmorizzatura tremolante. Il corridoio centrale, e a destra e a sinistra i corridoi laterali con le celle di tre metri per due e mezzo, con un secchio in una staffa di legno e una minuscola finestra. Alcune non hanno nemmeno la finestra, solo un foro d’areazione nell’angolo su in alto. Ci stavano anche in quaranta, lottavano per un posto vicino alla fessura della porta, si strappavano i vestiti, crollavano. Ce n’erano alcuni che dopo una settimana senza cibo erano ancora vivi. Ce n’erano alcuni che quando li tiravano fuori, avevano sulle cosce i segni dei denti, le dita strappate via a morsi.
Guardo in questi spazi, a cui sono sfuggito, resto in silenzio tra i muri fossili, non sento passi di stivali, urla di comando, gemiti e lamenti.
Qui, lungo questa anticamera angusta, si trovano le quattro celle dove si era costretti a stare in piedi. Qui c’è la botola nel pavimento, alta e larga mezzo metro, e dietro altre sbarre di ferro, qui entravano strisciando e stavano in piedi in quattro, in un pozzo di novanta centimetri per lato. In alto il foro d’areazione, più piccolo del palmo di una mano. Stavano lì cinque notti, dieci notti, ogni notte per due settimane, dopo il duro lavoro del giorno.
Dalla parete esterna del Block sporgono cassoni di cemento con un piccolo coperchio di latta perforato. Da qui l’aria s’infila per il lungo cunicolo fin giù nelle celle, dove stavano in piedi, puntando la schiena e le ginocchia contro la pietra. Morivano in piedi e la mattina dovevano essere grattati via da lì sotto.

L’Istruttoria di Peter Weiss, regia Gigi Dall’Aglio
ph. Andrea Morgillo (2022)

Da ore ormai mi aggiro per il Lager. Mi so orientare. Sono stato nel cortile davanti al Muro Nero, ho visto gli alberi dietro il Muro e non ho sentito le rivoltelle che sparavano alla nuca da brevissima distanza. Ho visto le travi sul soffitto, a cui venivano appesi per le mani legate dietro la schiena, un palmo sopra il pavimento. Ho visto le stanze con le finestre oscurate dove con i raggi X venivano bruciate alle donne le ovaie. Ho visto il corridoio, in cui stavano tutti in fila, a decine di migliaia, e avanzavano lentamente verso la stanza del medico, introdotti uno dopo l’altro dietro la tenda grigioverde, dove erano spinti giù a sedere su uno sgabello e dovevano alzare il braccio sinistro per ricevere la siringa nel cuore; e dalla finestra ho visto il cortile esterno, dove aspettavano i centodiciannove bambini di Zamosc, continuando a giocare a palla finché non venne il loro turno.
Ho visto il disegno del tetto del vecchio edificio della cucina sul quale era dipinto a grandi lettere: ES GIBT EINEN WEG ZUR FREIHEIT – SEINE MEILENSTEINE HEISSEN GEHORSAM FLEISS SAUBERKEIT EHRLICHKEIT WAHRHAFTIGKEIT NÜCHTERNHEIT UND LIEBE ZUM VATERLAND (C’è un’unica strada che conduce alla libertà: le sue pietre miliari si chiamano obbedienza laboriosità pulizia onestà schiettezza sobrietà e amor di patria). Ho visto la montagna di capelli tagliati nella vetrina. Ho visto le reliquie degli abiti infantili, le scarpe, spazzolini da denti e dentiere. Tutto era freddo e morto.

Sempre presente è lo strepito e il cigolio dei treni merci, lo sbuffare dei fumaioli delle locomotive, i fischi prolungati. Treni percorrono la vasta pianura diretti a Birkenau. Qui, dove la strada fangosa sale verso l’argine della ferrovia e lo attraversa, stavano i signori con la mano tesa e indicavano i campi aperti, decidendo di fondare quel luogo di confino che adesso sprofonda di nuovo nel terreno paludoso.
Un singolo binario devia dal percorso. Corre nell’erba, a tratti interrotto, spingendosi fino a un lungo fabbricato scolorito, una cascina dal tetto sfondato e con la torre in rovina, corre sotto il portone a volta della cascina.
Se nell’altro Lager tutto era stretto e ravvicinato, qui invece tutto si estende senza fine, a perdita d’occhio.
A destra, fino alle strisce di bosco, gli innumerevoli camini delle baracche demolite e bruciate. Restano ancora in piedi soltanto alcune file di queste stalle che li accoglievano a centinaia di migliaia. A sinistra, allineati, i dormitori in pietra delle prigioniere che scompaiono nella foschia. Al centro, per un chilometro, la rampa. Anche nello sfacelo si può riconoscere il principio dell’ordine e della simmetria. Dietro il portone della cascina, dov’è lo scambio, il binario si biforca a destra e sinistra. L’erba cresce tra le traversine. L’erba cresce in mezzo al brecciame della rampa che si solleva appena dalle rotaie. Era una bella altezza dalle porte spalancate dei vagoni merci. Dovevano fare un salto di un metro e mezzo sul pietrisco tagliente e buttar giù i loro bagagli e i loro morti. A destra andavano gli uomini a cui era concesso di vivere ancora un po’, a sinistra le donne ritenute idonee al lavoro, diritto s’incamminavano i vecchi, i malati e i bambini, incontro alle due ciminiere da cui usciva il fumo.
Il sole, basso all’orizzonte, irrompe dalle nuvole e si specchia nelle finestre delle torri di guardia. A destra e a sinistra del punto in cui finisce la rampa, cumuli di rovine giacciono tra gli alberi, i pioppi lungo il lato posteriore della recinzione sono immobili, lontano in una masseria anatre schiamazzano. A destra c’è il boschetto di betulle. Ho davanti agli occhi l’immagine delle donne e dei bambini accampati lì, una donna tiene il lattante al seno, e sullo sfondo un gruppo si dirige verso le camere sotto terra. Dall’enorme mucchio di pietre, con le putrelle di ferro contorte e i soffitti di cemento crollati, è ancora possibile stabilire l’architettura degli impianti. Qui la scala angusta porta giù nell’anticamera, lunga circa 40 metri, dov’erano panche e ganci numerati alle pareti per appendere i vestiti e le scarpe. Qui stavano in piedi, nudi, uomini, donne e bambini, e gli veniva intimato di tenere a mente il proprio numero per poter ritrovare i vestiti dopo la doccia.
Questi lunghi cunicoli di pietra, attraverso cui milioni di individui venivano convogliati nelle stanze disposte ad angolo retto, con le colonne di latta bucherellate, e poi trasportati su ai forni crematori per librarsi come fumo marrone, dolciastro e puzzolente, sul paesaggio. Questi cunicoli di pietra, a cui portano gradini, consunti da milioni di piedi, e adesso vuoti, ridiventano sabbia e terra, quieti sotto il sole che tramonta.
Camminavano qui, in lento corteo, provenienti da tutta l’Europa, questo è l’orizzonte che ancora vedevano, questi sono i pioppi, queste le torri di guardia con i riflessi del sole nel vetro delle finestre, questa è la porta, da cui sono passati per entrare nelle stanze immerse in una luce abbagliante, dove non c’erano docce, ma solo queste colonne quadrangolari di latta, queste sono le fondamenta tra le quali crepavano nell’oscurità improvvisa, nel gas che fuoriusciva dai buchi. E queste parole, queste cognizioni non dicono niente, non spiegano niente. Restano soltanto cumuli di pietre, ricoperti d’erba. Resta cenere nella terra, di quelli che sono morti per niente, che sono stati strappati alle loro case, ai loro negozi, alle loro officine, lontano dai loro figli, dalle mogli, dai mariti, dagli amanti, lontano da ogni quotidianità, per essere gettati nell’incomprensibile. Non è rimasto niente, eccetto la totale insensatezza della loro morte.
Voci. Un pullman si è fermato, scendono bambini. La classe visita adesso le rovine. Per un po’ i bambini ascoltano il maestro, poi si arrampicano qua e là sulle pietre, alcuni già saltano giù, ridono e si inseguono, una bambina corre accanto a un lungo solco scanalato che passa vicino a resti di rotaie attraverso una lastra di cemento. Quella era la pista inclinata su cui i cadaveri scivolavano fino ai carrelli. Guardando indietro, mentre mi dirigo al Lager delle donne, vedo i bambini ancora in mezzo agli alberi e sento il maestro battere le mani per radunarli.
Nel momento in cui il sole tramonta salgono i vapori dal terreno e ardono intorno alle baracche basse. Le porte sono aperte. Entro in una. Ed ecco: qui il respiro, i bisbigli e il fruscio non sono ancora completamente coperti dal silenzio, queste brande, una sull’altra, su tre piani lungo le pareti laterali e la parte centrale non sono ancora del tutto abbandonate, qui nella paglia, tra le ombre grevi, si sente ancora la presenza di quei mille corpi, giù in basso, all’altezza del pavimento, sul cemento freddo, in alto, sotto il tetto che sale obliquamente, sulle tavole, negli scomparti, tra le pareti portanti in muratura, serrati l’uno all’altro, sei in ogni buco, qui il mondo esterno non è ancora penetrato del tutto, qui ci si può ancora aspettare che qualcosa lì dentro si muova, che una testa si sollevi, che una mano si tenda.
Ma dopo un po’ anche qui tutto si fa muto e rigido. È arrivato un vivo e davanti a lui si chiude quanto è accaduto qui. Il vivo che arriva qui da un altro mondo, non possiede che le sue nozioni di cifre, relazioni scritte, testimonianze; sono parte della sua vita, ne porta il peso, ma può comprendere soltanto ciò che accade a lui. Soltanto quando è strappato alla sua scrivania e incatenato, quando viene preso a calci e frustato, egli sa di che si tratta. Soltanto quando è accanto a lui che essi vengono ammassati, colpiti, caricati su carri, egli sa di che si tratta.
Adesso è soltanto in un mondo scomparso. Qui non può fare più niente. Per un po’ regna il massimo silenzio.
Poi sa che non è ancora finita.

 

 

[1] Dell’iscrizione sul cancello del Lager Arbeit machtfrei (Il lavoro rende liberi), Weiss cita qui solo la parola MACHT, alludendo al fatto che, come sostantivo, essa significa “potere, potenza, dominio”.