Dal 6 al 14 novembre 2021 sarà finalmente possibile assistere allo spettacolo In Teatro Non Si Muore, produzione di Fondazione Teatro Due che avrebbe dovuto debuttare lo scorso anno – precisamente il 31 ottobre – ma bloccata dal secondo periodo di chiusura dei teatri dovuto alla pandemia Covid-19. Ultimo lavoro di Gigi Dall’Aglio, che oltre ad esserne autore e regista era anche interprete di cinque diversi personaggi, viene ora presentato in una forma che non può non tenere conto dell’assenza del suo creatore. In scena gli attori dell’Ensemble di Teatro Due – Roberto Abbati, Laura Cleri, Cristina Cattellani, Paola De Crescenzo, Davide Gagliardini, Luca Nucera, Massimiliano Sbarsi, Nanni Tormen, Emanuele Vezzoli – insieme a Zelíe Adjo, Modou Gueye, Anna Mallamaci, Roberto Serpi e con Davide Carmarino ad eseguire in scena le musiche originali composte da Alessandro Nidi.
Originariamente il testo nasce come una sceneggiatura per il cinema scritta da Dall’Aglio dopo un lungo soggiorno in Africa, sceneggiatura che è stata poi modificata e tradotta per la scena. Il testo originale è oggi contenuto nel libro 4 Storie di negri e teatro, pubblicato da Nuova Editrice Berti, che verrà presentato a Teatro Due l’11 novembre alle ore 17.30.

Se per definizione la crisi è una situazione traumatica e stressante, allo stesso tempo offre nuove opportunità di rinascita: In Teatro Non Si Muore nasce proprio da una riflessione sulla “crisi”, in particolare quella vissuta dall’intero pianeta durante i primi drammatici mesi di pandemia e quella che il Teatro a sua volta si è trovato ad affrontare applicando doverosamente i dettami imposti dalla legge per la protezione di pubblico e attori (distanze obbligate in scena, prove con la mascherina, controlli medici).
A questo proposito riproponiamo l’intervista fatta a Gigi pochi giorni prima di quello che sarebbe dovuto essere il debutto dello spettacolo.

 

Fuori dalla contingenza, da sempre si sente parlare della crisi del teatro. Ma di cosa parliamo quando parliamo di crisi del teatro?
Il teatro è in crisi quando vengono meno due presupposti assolutamente necessari: l’economia e il Pubblico. E il pubblico manca quando l’attore perde il senso rituale del suo lavoro, non cogliendo più la centralità dello spettatore come seconda metà del teatro – afferma Gigi Dall’Aglio. L’attore pensa prima di tutto a fare bene la parte, ad ottenere i ruoli giusti, nella migliore delle ipotesi crede di insegnare qualcosa, spesso crede di salvare il mondo; ma tutte queste funzioni sono derivate dal pubblico, dalla società che mette l’attore in palcoscenico a fare qualcosa per lei. Gli attori e il pubblico sono lo Yin e lo Yang del taijitu teatrale. “In teatro non si muore….” era una sceneggiatura cinematografica che avevo scritto anni fa e in cui avevo affrontato questi temi attraverso il racconto della crisi e della possibilità di sopravvivenza, del cambiamento e della ricerca di un nuovo ruolo, da parte di una piccola compagnia “familiare”.

Come possono recuperare gli attori il senso della ritualità perduta?
Di tutti i riti della società contadina, finita con la bomba atomica, non ne è rimasto uno. Quando ero bambino c’erano feste importanti dedicate alla fertilità, al rinnovamento… Ora sono scomparse. Ma anche il matrimonio e il battesimo sono cerimonie che hanno perso legame con la loro origine. L’unico rito che non riesce a disperdersi è il funerale. Si può cercare di scappare, ma prima o poi la morte arriva e il pensiero di chi si è perduto ritorna.
È su quel rito ancora presente che la compagnia teatrale del nostro spettacolo rinnova la sua funzione, perché è nel rito che il teatro trova la sua fertilità.

Secondo Aristofane il teatro può colmare i vuoti e salutare chi scompare. Qual è dunque il rapporto fra morte e teatro?
Son d’accordo con Genet quando disse che “nelle città di oggi il solo luogo in cui si potrebbe costruire un teatro è in fondo a un cimitero, alla periferia della città e tra i defunti, cioè tra la vita e la morte. Immerso nel silenzio, ma con gli spettatori che dovranno passare tra le tombe per entrare e per uscire. La morte sarebbe al tempo stesso più vicina e più lieve, e il teatro più solenne.” Lo spettatore ci arriverebbe dopo essere passato in mezzo alle anime dei defunti, dopo aver riflettuto sulla vita e la morte. Il fondamento di questo testo è qui, nella ricreazione della ritualità.

Come si svolge questo rito?
Nel nostro spettacolo l’attore è un posseduto che ridà voce al corpo di persone morte, tanto per dirlo utilizzando una citazione del nostro testo. Nello svolgersi della vicenda, gli attori che realizzano un Teatro cerimoniale, si occupano di una curiosa carrellata di clienti: omosessuali, compagni di bisboccia alla “Amici miei”, camorristi… ma il clou si raggiunge con i due africani che hanno perduto il figlio di 18 anni e con una madre autoctona a cui è morta la figlia, i due ragazzi sono vittime nello stesso incidente e vengono da due famiglie che, per pregiudizi vari, vivono reciproci e aspri rancori. Gli africani non possono avere una cerimonia tradizionale africana e non vogliono una cerimonia di tipo religioso. Che fare? Il padre ricorda di quando una organizzazione europea in Africa gli aveva insegnato il Teatro… “Erano tutte storie di uomini già morti che parlavano e agivano come se fossero vivi. E io avevo l’impressione, quando toccava a me recitare, che io mi portassi dentro lo spirito di un altro che mi faceva parlare e muovermi come se fossi lui. Nostro figlio è morto e noi vorremmo che un altro prenda dentro di sé la sua ombra…”.
È un discorso sulla morte molto fine, che non avviene però in un ambiente solenne, bensì in un teatro povero e modesto.

Una commistione di sacro e profano in grande stile. Come è nato il testo?
Anni fa ho avuto una lunga esperienza di teatro in Africa, a Lomè in Togo. Lì ho capito che il teatro adatto a qualsiasi latitudine e a qualsiasi livello culturale era quello di Shakespeare. Così ho accarezzato l’idea di fare un film su come mettere in scena un Macbeth in Africa, con streghe, premonizioni, magia e illusione, toccando le molte anime della cultura africana, compresa quella voodoo, che nel mio soggiorno avevo approfondito. Quando ho presentato la sceneggiatura a un produttore mi rispose letteralmente “noi su storie di negri e teatro non mettiamo una lira!”Tralascio i particolari della mia ira, ma la prima idea di vendetta che ho avuto era di violenza fisica, poi mi sono moderato e ho scritto per dispetto altre tre storie di “negri e teatro”, testi che saranno prossimamente pubblicati nel libro al quale sto lavorando insieme alla casa Editrice Berti. Uno di questi testi è proprio quello che stiamo mettendo in scena, adattato per il teatro. Ironicamente, dato che stando agli intenti di quel produttore si tratta di una sceneggiatura della quale non si farà mai il film, ho messo nel cast Vittorio de Sica, Sofia Loren, Marcello Mastroianni, Totò…

in teatro non si muore