Pubblicato nel ’56, un anno prima del Nobel e quattro prima dell’incidente mortale in cui Camus perse la vita, La chute – La caduta è un romanzo a una sola voce, quella di Jean-Baptiste Clemence. Avvocato parigino apparentemente virtuoso, Clemence in privato è un uomo dedito ai più disparati piaceri, dall’alcool alle donne. Resosi conto della fondamentale duplicità della sua esistenza, diviso tra legalità e perdizione, decide dunque di abbandonare la professione e di trasferirsi ad Amsterdam, facendo del bar Mexico City il suo eccezionale “studio”. Qui si dispiega l’approccio alla sua nuova vita: Clemence confessa a chiunque le proprie colpe e induce l’ascoltatore a pensare di averle commesse a sua volta, giudicandolo. Non c’è redenzione in questa nuova condotta, ma solo una caduta appunto, poiché Clemence, pur avendo effettivamente abbandonato la vecchia maschera di duplicità e ipocrisia, non si è reso un uomo migliore. Scomparsa la compassione di facciata che lo aveva contraddistinto, annullati i valori che tengono insieme la società, cancellate le apparenze, Camus ci dimostra che l’individuo si perde in un’inesorabile discesa, giù giiù fino al ruolo assunto da Clemence di “giudice-penitente”, che accusando se stesso rende colpevole l’umanità intera.