MAX GERICKE
la più granparte della vita è vita passata, menomale

di Manfred Karge

con Elisabetta Pozzi
traduzione e messa in scena Walter Le Moli

scene Tiziano Santi
costumi Susanna Montecolli
luci Claudio Coloretti
trucco Cinzia Costantino

25 novembre 2016
Gioia del Colle –
Teatro Pubblico Pugliese

1 dicembre 2016,
LumezzaneTeatro Odeon

L’identità negata, il tema del doppio, del complesso intreccio di maschile e femminile, la violenza della convenzione sociale: questi i temi di Max Gericke, capolavoro di Manfred Karge, ripresa di una storica produzione di Fondazione Teatro Due con la stessa straordinaria protagonista, Elisabetta Pozzi, a interpretare nuovamente la tragica e paradossale ambiguità del personaggio.

Ispirato a un caso realmente accaduto, Max Gericke è la favola tragica di Ella che, a poco più di vent’anni, perde il marito, operaio gruista. Sola nella Repubblica di Weimar durante gli anni della crisi economica, per poter sopravvivere decide di assumere l’identità del marito per non perderne il posto di lavoro. Nei panni di Max per oltre quarant’anni Ella trascorre la vita da ermafrodita proletario, trasformandosi in un personaggio la cui ambiguità sessuale è tragica e paradossale. Nella solitudine della sua stamberga di pensionato Max Gericke, sprofondato in poltrona, si lascia andare all’onda dei ricordi fino a svelare il grande segreto della sua vita. Dagli abissi profondi di una solitudine esistenziale, Elisabetta Pozzi, estrae i brandelli dolenti di una sepolta femminilità raccontando e rimpiangendo un universo al femminile tenuto accuratamente nascosto per tutta una vita.

Rappresentato in Italia per la prima volta nel 1984 a Teatro Festival Parma con l’interpretazione di Lore Brunner, il monologo di Manfred Karge è stato poi riallestito da Walter Le Moli nel 1990 con Elisabetta Pozzi, in una produzione di Teatro Due che ha sconvolto ed affascinato il pubblico per i suoi molteplici livelli di lettura quali il tema del doppio, i rapporti uomo-donna, l’identità negata, la violenza che permea i rapporti sociali.

Elisabetta Pozzi resa vecchia e irriconoscibile da un trucco, affronta con bel temperamento il non facile personaggio offrendone un’ottima, inquietante interpretazione tesa a fondere i diversi piani della finzione, vero maschio nell’ingurgitare birra, vera donna nel ricordo di una maternità negata, ma in sostanza una disperata maschera grottesca di dolore e umanità.
Magda Poli, Corriere della Sera

 

Walter Le Moli, autore della traduzione e della regia, ha confezionato uno spettacolo denso, struggente e non privo di umorismo. Di straordinaria bravura la Pozzi, sia quando è vestita e truccata come l’uomo già anziano che ricorda e rivive la propria straordinaria avventura, sia quando s’illude di poter tornare ad essere donna. Sorprendente nella sua corta parrucca grigia, gli occhi segnati profondamente, le rughe rilevate, la mano pronta ad afferrare il bicchiere o ad accendere la sigaretta, il suo Max ha una tale forza comunicativa e una tale precisione di gesto da suscitare l’ammirazione della platea.
Osvaldo Guerrieri, La Stampa 1998

 

Un miracolo di “sospensione di incredulità”: una bella attrice che, con un trucco formidabile, interpreta una donna che si fa uomo e vecchio, pur rimanendo donna. Grazie all’incredibile talento, e alla regia illuminata e delicata di Walter Le Moli, lo spettacolo continua a essere pregnante, di vibrante intensità e tensione. Elisabetta Pozzi è bravissima: può fare un assolo semplicemente muovendo la mano, aprendo una birra, cambiandosi le scarpe mostrando fatica e intenzione. Fa di questo personaggio un coacervo, un precipitato di umanità, di rancore, di astio, di nostalgie: poi, come sopraffatto dalla propria esistenza, semplicemente resta, a mostrarsi, per quel che non è stato.
Andrea Porcheddu