Si dice che i momenti di crisi si assomiglino tutti. Ma si dice altrettanto spesso che il momento di crisi in cui si è dentro sia il più grave di tutti. Che è come dire che le crisi le conosciamo fin troppo bene, e però non le conosciamo fino in fondo. Tutto ciò avrà delle conseguenze, aspettiamoci delle conseguenze. Sì, ma quali conseguenze?

Ecco, se noi viviamo ora e i giovani sono giovani, i giovani sono le nostre conseguenze. Nelle classi in cui i giovani studiano, si formano i nuovi cittadini, in pratica le direzioni future della società. Anche questa è una cosa che succede da sempre, e porta da sempre la stessa incognita.

L’incognita di uno scontento sotterraneo e tutt’altro che ignifugo, di una frustrazione dai risvolti ben lontani dall’essere innocui. Sì, perché se ci si guarda intorno si nota che oggi, come del resto cent’anni fa, l’orientamento delle nuove generazioni non necessariamente coincide con un approccio nuovo o originale; al contrario, un certo sistema di valori, un’etica del “rispetto delle tradizioni” e della “vecchia scuola” in chiave retrograda e in definitiva reazionaria da almeno un secolo esercita un grande fascino sui giovani. Questa prospettiva è inquietante, certo, ma bisogna essere fin troppo romantici e, permettetelo, miopi per non riconoscere che tutto ciò è accaduto in concomitanza con l’ascesa (resistibile) dei grandi totalitarismi, e che sta forse accadendo di nuovo.

La grandezza del libro di Horváth risiede in tanti fattori, ma forse due più di tutti sono quelli che ne rivelano la portata. Il primo è la lucidissima analisi che Gioventù senza Dio fa della Germania del 1938, in cui il Nazismo prende piede attraverso lo scontento pubblico e le convinzioni di dover tornare a un ordine perso in modo umiliante con la Prima Guerra Mondiale. In questo frangente, quello che sembra un dettaglio inquietante diventa un indizio rivelatore: i giovani cominciano a vedere il razzismo e l’intolleranza aggressiva come un concetto logico da perseguire per realizzare il benessere della nazione e preservare il vecchio onore. Le nuove generazioni rivelano, in questo modo, non solo la loro vulnerabilità alle dinamiche di regime, ma anche il loro peso nello sviluppo di un’ideologia pericolosa e violenta. In questo l’autore è maestro, perché ci porta nei meandri di una storia che avvince ma anche maschera significati oscuri e per niente rassicuranti.

Il secondo motivo per cui questo piccolo capolavoro della letteratura ci riguarda a quasi cento anni dalla sua pubblicazione, è anche quello che lo avvicina di più alla nostra epoca e al nostro mondo: le corde che Horváth tocca sono molto più universali di quello che appare, e la sua descrizione della crisi generazionale è paurosamente accurata. Se si pensa alle ultradestre che oggi risorgono in movimenti ultrapopolari (d’altronde questo è un mondo tutto ultra-) e contano su una base estremamente giovane, oppure ai giovani conservatori religiosi che salutano la venuta di Trump come quella di un messia che li libererà dal diavolo, il paragone con la classe di Gioventù sena Dio (e con quella del film L’onda) è tanto semplice quanto inquietante.

Insomma Gioventù senza Dio è un testo attualissimo, teatrale e cinematografico insieme, un noir ombroso dalle tinte espressioniste, un curioso rovescio di M – Il mostro di Düsseldorf in cui sono gli adulti ad essere in scacco dei ragazzi, ma anche una angosciante novella con atmosfere da Il nastro bianco, che getta uno sguardo su quanto le nuove generazioni possano essere a un tempo fragili e pericolose. Come comportarsi? Come insegnare il giusto e lo sbagliato? Domande che il protagonista pone a tutti i suoi interlocutori. E che anche noi dovremmo porre a noi stessi, alla società che siamo e che usiamo per educare, per continuare a essere vigili soprattutto sugli errori del passato, e del presente.