ph. Laurent Paillier

IL RAGGIO CHE ILLUMINA IL NOSTRO ESSERE QUI, ADESSO
Intervista a Carolyn Carlson
Teatro Festival Parma 2025

Fra le voci delle maestre della danza contemporanea, quella di Carolyn Carlson vibra a una frequenza molto particolare. Poetessa fisica, autrice di una danza che è allo stesso tempo frutto di contemplazione e contemplativa, la Carlson ha distillato il suo stile unico e intenso a partire da una biografia nomadica e da uno sguardo sul mondo degno di una sacerdotessa buddista. Le sue radici californiane intrise della memoria di una infanzia fra le acque dell’oceano, l’immensa imponenza delle sequoie e cieli sconfinati, sono il cuore della sua poetica: Kandinsky diceva che tutto il lavoro dell’artista è legato al ricordo – racconta – e per me è lo stesso, non solo della mia infanzia in California, ma anche dell’ottimismo, della fiducia che ha caratterizzato l’epoca della mia giovinezza, la filosofia dei figli dei fiori. Ora per me quei fiori sono diventati radici Lunghissimo l’elenco dei luoghi nei quali ha preso forma la sua arte, lasciando segni indelebili, fra l’America e l’Europa, contribuendo in maniera definitiva alla nascita della danza contemporanea in Francia e in Italia. Ha creato più di 100 coreografie, di cui molte fanno parte delle pagine più importanti della storia della danza e dal 2014 dirige la Carolyn Carlson Company.

Ultimamente la trasmissione e l’insegnamento sono il fulcro dei progetti della sua compagnia così come la diffusione del suo repertorio, temi centrali nell’attività che porta avanti anche il Teatro Due che si interroga sempre su come trasferire i saperi del teatro, le arti della scena, tecniche e pratiche creative alle nuove generazioni. Le chiedo innanzitutto quale è stato il suo rapporto con i maestri, a partire da Alwin Nikolais. Qual è il più grande insegnamento che ha appreso da un insegnante.

Ho studiato con Alwin Nikolais e per me è stata una rivelazione. Prima di qualsiasi altra cosa lui lavorava su idee e concetti: tempo, spazio, forme ed emozioni. Con lui ho imparato l’improvvisazione. Lasciava grande libertà al danzatore, stimolando la creazione improvvisativa intorno a suggestioni lontane dall’ego. Si lavorava su elementi precisi, enzimi per l’immaginazione.

 

Quale crede sia l’insegnamento più grande che un suo danzatore può trarre da lei?

Credo sia sempre l’insegnamento di Alwin, al quale però io aggiungo la poesia, che è un altissimo livello di lettura delle cose. È difficilissimo cercare di spiegare a parole cosa accade nelle mie lezioni. Lavoro con molte poesie e immagini di natura. Alwin era più astratto. Ma se devo dire quale sia il più grande insegnamento che cerco di trasferire ai miei allievi, dico la presenza: lavorare intensamente sul momento presente, alla ricerca di una specie di illuminazione. Il raggio che illumina il nostro essere qui, adesso.

 

La danza dunque è qualcosa che si può realmente insegnare?

Certo. Vengo dal balletto classico e l’incontro con Alwin Nikolais mi ha cambiato la vita perché nel suo insegnamento c’era la libertà e la certezza che ogni artista potesse trovare il suo personale e speciale “modo” nel movimento e nella creazione. Come dicevo, la prima cosa e più importante nella danza è la presenza, quindi io cerco di guidare l’allievo nell’esplorazione della sua luce. Il balletto classico, che amo, lavora con la tecnica. Anche nel mio percorso c’è la tecnica ovviamente, ma c’è anche di più… investe la sospensione, l’attesa, la fluidità.

 

Se dovesse descrivere la “missione” della sua danza, quale sarebbe?

La condivisione. Condividere poesia e presenza. Le parole dicono poco lo so, bisogna vedere l’opera. La danza è un’arte visiva, è energia ed emozione visuale. È difficile da spiegare, perché nella danza sono le immagini visive a trasmettere l’essenza. Il pubblico ha la sua percezione solo guardando e dopo aver visto.
Ma la cosa più importante per me è convogliare messaggi poetici. L’immagine ha molte interpretazioni. Quando qualcuno mi chiede cosa volevo dire in una coreografia, rispondo “tu cosa pensi che volessi dire”? A volte cerchiamo di descrivere troppo ciò che vediamo, di capirlo. Così perdiamo qualcosa. Invece dovremmo solo osservare. Mi guida un concetto molto orientale: non giudicare niente, solo vivere.
Ho scoperto il buddismo quando ero con Alwin, da allora medito ogni mattina. E anche la danza è una forma di meditazione, sei lì in un momento che l’attimo dopo è già andato. E così la musica, il teatro. L’arte è presenza. Ecco perché amo la danza.

 

La poesia è centrale nel suo lavoro, le sue non sono coreografie, ma “poesie visive”: come compone le sue poesie (scritte), quali temi o momenti la ispirano.

Ce ne sono molti. Molte delle mie poesie partono dalla natura, dall’oceano, dal cielo. Ma anche dalle emozioni umane. Per esempio il mio ultimo lavoro si chiama The Tree (L’albero) e parte da una preoccupazione sull’ambiente, l’aria che respiriamo, il cibo che mangiamo, l’acqua, le foreste. Prenderci cura della natura è ciò che dovremmo fare.

 

Quali sono i poeti che la ispirano, quale produzione letteraria c’è alla base della sua arte?

Io sono cresciuta con Bob Dylan, che è un grande poeta. Poi ho studiato il filosofo francese Gaston Bachelard, gli ho dedicato quattro pezzi. In Italia avete poeti incredibili che mi hanno ispirato, come Dante con la sua Commedia. Mentre studiavo con Nikolais, poi, ho scoperto gli haiku, brevissime poesie nelle quali l’ultimo verso cambia tutto.

 

Come trasforma i concetti che vuole portare in scena in movimenti per i suoi danzatori?

Emergono dal processo. All’inizio di un lavoro porto immagini e testi, poesie mie e di altri poeti, poi improvvisiamo per due o tre settimane e solo dopo quel tempo inizio a coreografare. È lo stesso metodo che aveva Pina Bausch, lei era più concentrata su temi sociali, io sulla natura e gli elementi. Per me il punto è la condivisione di una percezione della vita.
Sto preparando per il Festival di Avignone un lavoro con alcuni danzatori che vengono dal balletto classico e ci vuole tempo per spiegare loro quali intenzioni voglio che li muovano, è una sfida entusiasmante. Ma i danzatori con i quali lavoro da anni, capiscono al volo le intenzioni che propongo.

 

La natura ha dunque un ruolo cruciale. La sua bellezza meravigliosa e implacabile ispirerà, placherà e sovrasterà sempre l’uomo. Quale è la sua visione della natura, soprattutto in una fase di cambiamento come questo?

È molto difficile adesso. Io ho dei nipoti e non so davvero come sarà il mondo fra vent’anni. Ora avvertiamo ogni giorno di più le conseguenze delle nostre azioni, il cambiamento climatico, il disastro degli animali, la foresta Amazzonica…

 

I due concetti di benigno e maligno non valgono solo in relazione alla natura, ma la relazione fra yin e yang è anche alla base della nuova creazione Rage, con un danzatore, una danzatrice e la colonna sonora del Mieskuoro Huutajat, un coro urlante finlandese. È possibile questo equilibrio? Perchè la creazione si chiama Rage?

Noi siamo yin e yang, siamo amore e odio: è la nostra vita, abbiamo il giorno e la notte. E il titolo Rage, molto inusuale per me, è nato dalla collaborazione con l’incredibile coro Huutajat. Con loro ho collaborato a Venezia nel 2001 per J. Beuys Song, li stimo molto. Per questo nuovo duetto, il direttore Petri Sirviö mi ha chiesto di scrivere i miei pensieri su ciò che sta accadendo nel mondo oggi. La rabbia è un sentimento che tutti viviamo ed è frutto delle preoccupazioni che ci vengono da cosa sta accadendo. Qualcosa è impazzito. Io vengo dalla generazione hippy, il nostro motto era “peace and love”, dove sono finiti empatia e compassione? Sono arrabbiata, ma cosa posso fare? Niente. A volte ho bisogno di interrompere il flusso delle informazioni, perché sono talmente inquietanti e preoccupanti. Ma quello che dobbiamo fare è continuare a fare il nostro lavoro.  Nel pezzo però vedrete che la rabbia si può trasformare in qualcos’altro. Parlo del ritorno, alla fine, della grazia e dell’accettazione. Abbiamo lavorato su rabbia, natura ed esito pacifico, tre concetti da trasformare in valori spirituali.
Il mio è un lavoro contemplativo. Al pubblico vorrei restituire memoria e immaginazione. Percezione e emozione.

 

Possiamo dire che il suo lavoro è politico?

No, non mi piace questa parola. Non è politico. È emozionale. Filosofico. Non amo la parola politica, io non sono nella politica, vedo cosa sta succedendo, ma non urlo il mio dissenso. Il mio lavoro non è come quello di Maguy Marin. Io porto un altro messaggio. Dico rabbia, ma cerco di significare anche qualcos’altro. L’essenza di questo concetto è custodita nel solo The seventh man che Riccardo Meneghini interpreterà anche in Arena Shakespeare a Parma: noi abbiamo molte facce.

 

Ha tracciato una linea fra Rage e The Seventh Man. L’ “arcipelago” Islands che sarà presentato in Arena Shakespeare si completa con le isole Wind Woman e Mandala, a cosa si è ispirata per questi pezzi?

Wind woman è sul respiro e il respiro è vento. E Mandala è sul cerchio, che rappresenta il tempo, senza inizio né fine. È sul centrarsi.

27 giugno 2025
Intervista a cura di Michela Astri 

ph. Guy Delahaye, Laurent Philippe